BREVE STORIA D'ITALIA

 

VERSO IL MIRACOLO ECONOMICO

Sia a destra che a sinistra in molti pensarono che dopo i traumi del 1948 si sarebbe potuto finalmente aprire un nuovo periodo della storia nazionale e mettere mano a quelle riforme indispensabili per far uscire il paese da una situazione ancora profondamente segnata dalle rovine della guerra, dalla povertà diffusa, dall’analfabetismo, dall’arretratezza del sistema agricolo e industriale, dall’inefficienza burocratica.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, metteva in evidenza l’assoluta inadeguatezza dello Stato: il meccanismo della pubblica amministrazione era rimasto praticamente quello di un secolo prima e negli uffici - dal più periferico Comune alla Direzione generale di un importante Ministero - l’organizzazione del lavoro, la mentalità del personale, i criteri di priorità, i mezzi tecnici, il rapporto coi cittadini (i quali, non dimentichiamolo, fino a pochi anni prima erano ancora sudditi di Sua Maestà), tutto era dominato da un principio fondamentale: non fare nulla che turbasse l’ordine costituito. Ma ciò non era dovuto solo ad un meschino istinto di conservazione o al consapevole disegno antiriformatore di taluni apparati (si pensi soltanto al fenomeno della corruzione venuto alla luce con Tangentopoli, o al ruolo violentemente antidemocratico esercitato dagli apparati di sicurezza; su questi argomenti sono di grandissimo interesse gli studi, citati in bibliografia, pubblicati da Cazzola e De Lutiis): vi era un problema culturale di fondo, tuttora non risolto, legato per un verso al fatto che l’Italia era uno Stato di recentissima formazione, che non vantava una tradizione plurisecolare di governo unitario come nel caso della Francia o dell’Inghilterra; dall’altra parte proprio nel paese di Machiavelli (triste destino davvero quello di messer Niccolò, 1469-1527: del padre della scienza politica moderna perlopiù si citano a sproposito piccole frasi ad effetto, o, peggio ancora, si usa il suo nome per ricavarne un aggettivo dal sapore canagliesco) l’idea stessa di Stato è sempre stata per così dire in subordine rispetto a Dio e alla famiglia: al primo ci si affidava per i grandi problemi etici, e alla seconda (intesa in senso ampio: non solo i congiunti, ma anche la parentela più vasta, gli amici, i protettori) ci si rivolgeva per le questioni più terrene, trovare un lavoro, ricevere un prestito, ottenere giustizia. Lo Stato, insomma, lungi dall’essere momento di organizzazione della vita collettiva e di coesione sociale, si è sempre presentato come una sorta di entità aliena, non solo estranea ai bisogni e alla vita quotidiana degli individui, ma il più delle volte addirittura ostile, soprattutto nei confronti dei deboli per i quali era sostanzialmente sinonimo di esattore di tasse.
Comunque tutto questo si tradusse non solo in una diffusa inettitudine amministrativa, ma, quel che è più grave, nell’assenza di qualsiasi cultura della programmazione (si tenga presente che molto spesso per programmazione s’intende quella strettamente riferita all’economia, ma qui il termine è usato per indicare in senso lato l’elaborazione e la gestione di progetti nei vari campi): in altre parole, nei governanti e soprattutto negli alti gradi della burocrazia era praticamente sconosciuta o incomprensibile l’idea stessa che per risolvere un problema strutturale era indispensabile ragionare sul lungo periodo, impostare una serie di azioni che non si esaurissero nell’immediato ma che, distribuite nel tempo, dessero avvio a un processo riformatore e ne seguissero le varie fasi successive fino al completamento.
In Italia a tutt’oggi vi sono più di 160.000 leggi, a fronte delle 6.000 della Germania e delle 7.000 della Francia, e ciò rende praticamente impossibile al singolo cittadino, come a un’azienda o a un Sindaco, orientarsi in questo groviglio, avere certezza dei propri diritti e doveri, sbrigare agevolmente una pratica, prendere decisioni rapide. Per un essere umano nutrirsi è essenziale, ma un eccesso di cibo porta all’obesità, che a sua volta provoca gravi scompensi o addirittura la morte; analogamente, se la democrazia si nutre di leggi, il loro aumento smisurato conduce alla paralisi o a un collasso letale, e molti studiosi della politica ritengono che oggi questo sia in assoluto il problema prioritario per il nostro paese.
Si è arrivati a una tale situazione proprio perché in cinquant’anni si è sempre proceduto per piccoli aggiustamenti, condoni, misure parziali, provvedimenti particolari in favore di specifici interessi, senza mai assumersi la difficile responsabilità di governare per il futuro. Del resto, non è pensabile che un Ministro elabori programmi a lungo termine quando, come si è visto, la durata media dei governi è di un anno.
Il problema allora è duplice: per un verso vi è l’aspetto più strettamente politico, cioè legato alla volontà di compiere scelte decise, di fare propria la cultura della programmazione; per altro verso dare stabilità a un sistema politico che invece è fisiologicamente instabile, e uno dei modi è appunto quello (parzialmente attuato a metà degli anni ‘90) di sostituire al sistema elettorale proporzionale un sistema maggioritario (semplificando al massimo si può dire che nel sistema uninominale il territorio è diviso in tante zone, i collegi quanti sono i seggi disponibili e in ciascun collegio viene quindi eletto un solo parlamentare: in teoria possono concorrere diversi candidati, ma è evidente che avrà le maggiori possibilità il candidato appoggiato dalla coalizione più ampia, e ciò spinge i partiti a formare forti alleanze, come il Polo e l’Ulivo).

Il Piano del Lavoro elaborato nel 1949 dalla CGIL e appoggiato da PCI e PSI andava in qualche modo in questa direzione e, al di là della giustezza o meno di tali proposte, occorre dire che sul versante opposto la DC e i suoi alleati non accettarono questo terreno di confronto, e non si posero nell’ottica di contrapporre un proprio piano a quello formulato dalla sinistra. E la ragione non stava certo nella mancanza di idee o di tecnici preparati, quanto nella difficoltà tutta politica di individuare delle priorità su cui intervenire con fermezza: ciò avrebbe comportato scelte nette che necessariamente sarebbero anche andate a colpire fasce importanti di società, ovvero di elettorato.
Si è già accennato al calo di consensi che ebbe la DC a favore dei monarchici, e ora si può mettere a fuoco meglio tale fenomeno. Le iniziative del Ministro Gullo ottennero il convinto consenso di tutta la DC, sia del gruppo dirigente raccolto intorno a De Gasperi sia della sinistra interna guidata da Giuseppe Dossetti, fautore di un cattolicesimo fortemente impegnato sul piano della giustizia sociale; ovviamente nella DC vi era anche la preoccupazione di contrastare la diffusione degli orientamenti di sinistra fra i contadini, ma al primo posto vi fu la consapevolezza che la situazione delle campagne, soprattutto al Sud, era davvero intollerabile. Dopo il 18 aprile, quindi, il governo intendeva affrontare organicamente il problema, anche perché riceveva forti pressioni in questo senso sia da Confindustria che dagli Stati Uniti, entrambi preoccupati dal freno rappresentato per l’economia italiana da un’agricoltura dominata da latifondisti che vivevano di rendita e non investivano una lira per ammodernare e rendere dinamico il settore.
Ma, secondo gli stessi economisti democristiani, non poteva esserci alcuna vera riforma agraria se non a partire da misure che colpissero drasticamente i proprietari assenteisti, in primo luogo espropriando i terreni abbandonati e ridistribuendoli fra i contadini. Quando in Sicilia e in Calabria si avviarono iniziative di questo tipo, la reazione degli agrari fu durissima, impedendo di fatto che esse avessero un seguito concreto; dal canto loro i braccianti e i contadini erano ormai stati coinvolti profondamente dalle idee di riforma e diedero vita a un movimento di lotta assai esteso (cfr. P. Cinanni, Lotte per la terra nel Mezzogiorno, Feltrinelli, 1977), occupando i latifondi e opponendosi energicamente al caporalato. Il potere, tuttavia, era ben saldo nelle mani dei grandi proprietari, che esercitarono una tale pressione sui parlamentari democristiani da costringerli a recarsi dal Ministro Scelba per chiedere l’intervento generalizzato nei confronti degli occupanti. Per la verità non fu particolarmente difficile convincere il solerte Ministro, il quale inviò al Sud vari battaglioni della Celere, cioè quel settore della pubblica sicurezza appositamente addestrato per l’intervento “di piazza”. Nell’ottobre del ‘49, a Melissa, la polizia fece fuoco sui dimostranti, uccidendone tre: fu solo il primo dei numerosissimi (e spesso dimenticati) episodi di sangue che in tutto il dopoguerra segnarono il conflitto sociale, con decine e decine di operai e contadini morti senza che i loro assassini fossero mai condannati.
Nella DC si aprì un vivace dibattito interno: da una parte chi sosteneva che non potevano essere deluse le aspettative delle masse meridionali, a cui per la prima volta era offerta un’opportunità di riscatto da una miseria secolare; dall’altra chi vedeva come larghi strati del ceto medio e della borghesia meridionale voltavano le spalle a un partito cattolico troppo spostato a sinistra e quindi rivolgevano apertamente le proprie simpatie ai monarchici e ai neofascisti che proprio al Sud si stavano massicciamente riorganizzando.
De Gasperi confermò la sua grande capacità di politico e lavorò con estrema abilità per tenere unite queste due anime contrapposte: nella DC non dovevano prevalere né quelle istanze sociali che le avrebbero inevitabilmente alienato la fiducia dell’elettorato moderato né gli interessi dei settori più retrivi della borghesia, e quindi la politica del partito non poteva assumere orientamenti univoci. Parafrasando lo stesso De Gasperi si potrebbe dire che la DC era un partito di centro che guardava con un occhio a sinistra e con l’altro a destra: uno strabismo che in effetti determinò le fortune della DC, perché il suo dichiarato interclassismo le consentì per quarantacinque anni di rispondere con notevole efficacia sia alle aspirazioni di progresso di ampi strati di ceto popolare sia alla vocazione conservatrice delle classi medio-alte.
Sul piano generale, però, questa strategia significò rinunciare a qualsiasi disegno organico di riforme strutturali: alla riforma agraria complessiva si preferirono dunque interventi settoriali, che, senza intaccare la sostanza dei privilegi e dei tradizionali assetti di proprietà, diedero comunque a migliaia di famiglie il possesso di terreni coltivabili. Fu uno straordinario successo politico, perché l’oculata assegnazione di oltre 600.000 ettari portò a profonde divisioni nel fronte di lotta contadino, rompendo definitivamente il rapporto creatosi fra sinistra e mondo rurale.
Ciò fu reso possibile anche in virtù dei mezzi utilizzati nel procedere alle assegnazioni di terra e nell’erogazione dei contributi finanziari agli agricoltori: venne creata tutta una serie di Enti che provvedevano in tal senso, cosicché non solo nel meridione ma in tutte le aree agricole del paese la DC poteva disporre di una rete capillare attraverso cui gestire il rapporto fra intervento economico e consenso sociale. Fondamentale, da questo punto di vista, fu la rivitalizzazione della Federconsorzi: fondata alla fine del secolo precedente per assistere l’agricoltura, assunse le dimensioni di un vero e proprio colosso, poiché divenne l’ente che gestiva la quasi totalità della distribuzione dei fertilizzanti e delle macchine agricole, e che orientava i flussi del credito ai coltivatori. La gestione clientelare dell’ente lo ha poi portato, all’inizio del ‘91, al fallimento.
Sempre in quel periodo, precisamente nel 1950, venne istituita la Cassa per il Mezzogiorno, che diventò ben presto l’asse intorno al quale si mossero tutte le principali iniziative di politica economica al Sud. Questo ente statale nacque, per ispirazione del governo statunitense, sulla falsariga di alcune esperienze condotte durante il New Deal (letteralmente Nuovo Corso: l’insieme delle riforme economiche e sociali promosse dal Presidente Franklin D. Roosevelt tra il 1933 e il 1938; la Cassa si ispirò in particolare alla Tennessee Valley Authority e ad alcuni enti governativi analoghi, che avevano appunto lo scopo di aiutare la produzione agricola ed energetica degli Stati più poveri del Sud.), e aveva una duplice funzione: programmare, finanziare ed eseguire opere pubbliche ed altri interventi straordinari in grado di attivare l’espansione dell’economia meridionale; erogare prestiti a fondo perduto (che cioè non venivano restituiti) o a tassi d’interesse particolarmente favorevoli per le aziende che volevano investire al Sud. Insieme alla “riforma” agraria la Cassa fu senz’altro il capolavoro economico e politico della DC: migliaia di miliardi vennero convogliati al Sud, e se una parte servì effettivamente a rimodernare la rete ferroviaria, a costruire strade, a creare aree industriali, una quota assai cospicua finì per alimentare i meccanismi clientelari che garantirono alla DC il pieno controllo della società meridionale. È bene precisare, comunque, che a beneficiare degli interventi della Cassa furono soprattutto le industrie del Nord, sia perché poterono realizzare a costi bassissimi impianti redditizi, sia perché le iniezioni di benessere al Sud incrementarono quella domanda di prodotti che le aziende stesse potevano soddisfare.


L’aver distrutto il movimento per loccupazione delle terre diede alla DC la consapevolezza di poter arginare la crescita delle sinistre e addirittura di poter vincere in un colpo solo tutta la partita: perciò, ad appena cinque anni da quando era stato adottato il sistema elettorale proporzionale, fece approvare una legge in cui tale sistema veniva completamente stravolto, introducendo un “premio” in base al quale la coalizione che alle elezioni avesse ottenuto il 50% più uno dei voti si sarebbe assicurata i due terzi dei seggi alla Camera. Era una forzatura pesantissima delle regole costituzionali, e le sinistre protestarono con grande vigore, definendo il provvedimento “legge truffa”.

Ma alle elezioni del 1953 si andò con quel correttivo e la coalizione di governo sfiorò l’obiettivo, ottenendo il 49,8 dei suffragi: evidentemente la DC aveva sopravvalutato il recupero di consensi avviato al Sud coi provvedimenti appena ricordati, infatti nell’ambito dell’alleanza elettorale calò dal 48,5% del 1948 al 40%; ma ciò non fu dovuto a un clamoroso successo della sinistra, che pure andò piuttosto bene (PCI: 22,6; PSI: 12,7; complessivamente più del 4% rispetto al risultato del Fronte), quanto al successo, ben al di là delle previsioni, otenuto dall’estrema destra: i monarchici passarono dal 2,8 al 7%, e il MSI balzò dal 2 a quasi il 6%, divenendo a tutti gli effetti uno dei protagonisti della scena politica. La formazione neofascista, che negli anni successivi avrebbe rastrellato buona parte dei voti monarchici, passò infatti da piccolo gruppo che raccoglieva i reduci della RSI a partito ben radicato nella società, in grado di competere direttamente con la DC (anche se in posizione minoritaria e con ben altri riferimenti ideologici) in quell’interclassismo espressione sia delle istanze più conservatrici, o apertamente reazionarie, sia del malcontento di strati popolari.
Il mancato successo del progetto politico di De Gasperi, ne segnò il definitivo tramonto: fallito il tentativo di porsi alla guida del nuovo governo, si dimise e scomparve dalla scena politica, morendo l’anno dopo. Alla guida della DC subentrò il giovane Amintore Fanfani, e insieme a lui emerse tutto un nuovo gruppo di dirigenti, che sarebbero poi stati per decenni protagonisti di primo piano della vita politica, da Giulio Andreotti a Emilio Colombo, da Silvio Gava ad Aldo Moro.


Una delle caratteristiche dei governi italiani in questi cinquant’anni è stata l’intercambiabilità dei ministri: i personaggi chiave della DC erano più o meno sempre presenti, e, crisi dopo crisi, passavano da un ministero all’altro. Il record, manco a dirlo, è di Andreotti, con 32 presenze (senza contare la carica di sottosegretario), seguono Colombo (26), Fanfani (18), Taviani (16), Moro (14).
Dal punto di vista internazionale il ruolo italiano sarà abbastanza modesto in tutti questi anni, nel senso che l’Italia tese a uniformare del tutto le proprie posizioni a quella che era la strategia americana, oltre al fatto che comunque scontò per molto tempo il proprio passato fascista. Sul versante militare il nostro paese, ovviamente entrato a far parte della NATO, fu sempre oggetto di grande attenzione da parte della Casa Bianca, perché la divisione del mondo in blocchi aveva reso la penisola un punto cruciale, sia per il costante pericolo che le sinistre conquistassero il governo, sia, soprattutto, per la particolare posizione geografica nel Mediterraneo e rispetto ai paesi dell’Est europeo, tanto che furono (e in parte sono tuttora) installate in tutto il paese numerose basi militari con arsenali nucleari.
Sul versante economico il capitalismo italiano non si era ancora sufficientemente rafforzato e non poteva ancora pensare di competere con i mercati esteri, tanto che settori importanti di Confindustria non appoggiarono il processo di cooperazione che nel marzo del 1957, col Trattato di Roma, porterà alla costituzione del MEC (Mercato Comune Europeo). E mentre per alcuni anni l’industria privata puntò quindi a consolidare i propri apparati produttivi e a risanare i bilanci, fu nel settore pubblico che avvennero le maggiori novità.
I paesi promotori furono Belgio, Francia, Germania Federale, Italia, Lussemburgo, Olanda, che puntavano a integrare meglio le rispettive economie. Con l’accorpamento di altre strutture europee (CECA, Euratom) si passò alla CEE (Comunità Economica Europea, con sede a Bruxelles), con la partecipazione di Danimarca, Gran Bretagna, Irlanda, e poi Grecia, Spagna, Portogallo, e infine Austria, Norvegia, Svezia e Finlandia. L’avvio di una politica agricola comunitaria, la progressiva abolizione delle dogane, la definizione di iniziative di cooperazione nei principali campi dell’economia, la creazione del Sistema Monetario che prepari l’adozione di un’unica moneta, hanno proceduto parallelamente a una collaborazione politica sfociata (1979) nell’elezione del Parlamento europeo, dapprima con funzioni consultive e in seguito con forti poteri di indirizzo su molte questioni. Il trattato di Maastricht (1991) ha definito le successive tappe in base alle quali la nuova Unione Europea dovrà concretizzare la politica economica comunitaria, i sistemi di difesa, la Banca centrale. Nel 2004 sono entrati a far parte dell'UE numerosi paesi dell'est, portando a 25 il totale dei membri.
L’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale) era stato fondato nel 1933 per aiutare le aziende in crisi e per tentare di dare un’ossatura all’industria italiana ancora debole e arretrata, e l’ente statale assunse un ruolo di primo piano sia nel credito (Banca Commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma) sia nei principali comparti dell’industria manifatturiera (siderurgia, cantieristica, meccanica, aeronautica) e dei servizi (elettricità, telefonia), arrivando a occupare oltre 200.000 persone. Per industria manifatturiera s'intendono i settori in cui la materia prima viene trasformata in prodotto finito o semilavorato; a loro volta tali settori si dividono in industria pesante (meccanica, metallurgica, siderurgica) e ind. leggera (piccoli prodotti di largo consumo, ad es. ind. tessile); del manifatturiero non fanno parte le industrie estrattive, di produzione energetica e l’edilizia. L’industria è anche definita settore secondario dell’economia, essendo l’agricoltura il primario, e i servizi il terziario. Con lo sviluppo delle comunicazioni autostradali e telefoniche e l’ avvento della televisione, l’IRI gestì anche questi settori strategici.
Agli inizi del 1948 il colosso venne completamente ridisegnato, razionalizzando settori e competenze e dandogli una buona autonomia - fattore che si rivelò decisivo - rispetto alla macchina statale: ciò permise, fra l’altro, di elaborare e attuare, sotto la direzione di Oscar Sinigaglia, uno dei pochi grandi piani industriali mai realizzati in Italia, quello relativo all’espansione del comparto siderurgico (con le grandi acciaierie di Bagnoli, Cornigliano, Piombino, Taranto), giustamente considerato essenziale per lo sviluppo economico generale.
Ma un’altra forza di prima grandezza si andava profilando nel panorama economico italiano. Enrico Mattei si era fatto da sé, come si suol dire: fattorino a quindici anni, impiegato, rappresentante di commercio, a poco più di trent’anni aveva già una sua piccola azienda chimica; si unì alla Resistenza diventando uno dei migliori comandanti delle formazioni cattoliche, e la stima che si era conquistato negli ambienti vicini alla DC, oltre alla sua “intelligenza viva e alla grande scaltrezza” (G. Bocca, Storia della Repubblica italiana, Mondadori, 1982, p. 181), gli aprirono molte porte nell’immediato dopoguerra. Fu chiamato a dirigere l’Agip, l’ente di stato che si occupava dell’estrazione e della raffinazione del petrolio, cioè della materia prima assolutamente vitale per ogni ipotesi di crescita industriale; durante il fascismo la gestione burocratica dell’Agip aveva dato pessimi risultati, tuttavia Mattei intuì che l’azienda poteva assumere un ruolo strategico e potenziò energicamente i settori della ricerca, convinto che in Val Padana vi fossero ricchi giacimenti metaniferi. Era proprio così, e nel 1953 Mattei trasformò l’Agip in un’azienda che era solo una parte di una struttura economico - finanziaria di formidabili dimensioni: l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), di cui divenne presidente.

Mattei era troppo brillante e vedeva troppo lontano per fare dell’ENI l’ennesimo carrozzone democristiano, e, pur sfruttando spregiudicatamente il notevole potere politico che aveva acquisito, lo utilizzò per dare all’ENI la fisionomia e la dinamicità di un gruppo in grado di competere a livello mondiale. Infatti, oltre a fare dell’ENI il battistrada nei settori emergenti dello sviluppo (autostrade, energia nucleare, ricerca scientifica, costruzione d’impianti speciali, tecnologie d’avanguardia, petrolchimica, gomma sintetica), puntò a creare rapporti diretti fra l’Italia e i paesi produttori, rompendo per la prima volta il ferreo controllo esercitato in questo ambito dalle “Sette sorelle” (le grandi compagnie petrolifere americane e inglesi). Probabilmente sta in questo progetto, che sconvolgeva interessi di proporzioni incalcolabili, la causa dell’attentato che nel 1962 fece esplodere l’aereo su cui viaggiava Mattei: una delle tante pagine bianche della storia italiana, perché le inchieste sulla morte di Enrico Mattei non diedero alcun risultato.
IRI ed ENI diventarono i punti di forza del complesso delle aziende controllate dallo Stato operanti attivamente nelle telecomunicazioni, nell’editoria, e in tutti i settori trainanti dell’industria (dove ai comparti già ricordati si aggiunse quello alimentare). Questo sistema delle aziende pubbliche, cioè le Partecipazioni Statali, insieme alla Cassa per il Mezzogiorno, alla Federconsorzi, e alle centinaia di Enti parastatali (cioè non giuridicamente facenti parte dell’amministrazione pubblica, ma comunque controllati dallo Stato e che gestivano tutti i principali servizi pubblici) andò a formare uno dei punti di forza del cosiddetto boom degli anni ‘50.
Questo fenomeno, il miracolo economico, non deve però essere inteso come un processo pianificato e gestito sulla base di un preciso disegno di politica economica, perché rimase di fatto inalterata la scelta da parte dei vari governi di non avviare una vera e propria programmazione. In realtà vi fu qualche iniziativa in tal senso, come quella tentata nel 1954, peraltro senza alcun seguito concreto, dal Ministro delle Finanze, Vanoni, che aveva come obiettivi del suo piano decennale la piena occupazione, il progressivo superamento dello squilibrio economico e sociale fra Nord e Sud, la drastica riduzione della bilancia dei pagamenti (Il complesso conteggio dei pagamenti, da effettuare e da riscuotere, fra un paese e il resto del mondo: in altre parole, il risultato del calcolo fra quanto un paese paga agli altri paesi per l’acquisto di merci e di servizi, e quanto lo stesso paese incassa per la vendita di analoghi prodotti. La principale voce è la bilancia commerciale, cioè il rapporto fra le esportazioni e le importazioni: si dice che la bilancia è in attivo quando le esportazioni sono superiori alle importazioni, cioè quando si vende più di quanto si acquista. Ridurre la bilancia dei pagamenti significa dunque essere economicamente più sani, perché si dipende meno dalle economie straniere e, in definitiva, si guadagna più di quanto si spende).
Ma ciò contrastava con il fatto, già evidenziato, che l’insieme delle aziende pubbliche - pur con importanti eccezioni - e degli enti agiva non tanto con lo scopo di produrre benessere per il paese, e con la coordinazione che ciò avrebbe comportato, ma secondo una logica prevalentemente politica, cioè per soddisfare interessi localistici (il parlamentare che fa aprire una fabbrica nel proprio collegio), per creare nuovi apparati in cui far assumere amici e sostenitori, per agevolare aziende che poi finanziavano i partiti governativi, e così via. Ed è proprio in tale potente intreccio fra meccanismi clientelari e ricchezza reale che producevano queste aziende che si nasconde la profonda contraddizione di quel periodo, e in generale di tutti questi cinquant’anni: lo Stato non agiva per l’intera collettività, bensì a favore di singoli gruppi, e a scapito di altri, o di aree che venivano privilegiate rispetto ad altre. Tutto questo, certo, creava benessere, soddisfaceva esigenze, alimentava nuovi bisogni, ma sempre all’insegna di gravi diseguaglianze e discriminazioni.
Un ulteriore e decisivo elemento che si opponeva alla politica di programmazione consiste nel fatto che i suoi vantaggi il più delle volte non coincidevano con quelli che erano i propositi e i comportamenti concreti dell’altro grande fattore trainante del boom: l’industria privata.
Confindustria ebbe non poche perplessità sia sul rafforzamento delle Partecipazioni Statali sia sull’ingresso dell’Italia nel MEC: nel primo caso la preoccupazione, non del tutto infondata, era di avere di fronte un concorrente troppo avvantaggiato dall’essere diretta espressione del potere politico, nel secondo si temeva di non poter competere con economie decisamente più forti. In realtà entrambi i fattori (insieme ad altri, come la fornitura attuata dal Piano Marshall di tecnologie avanzate) interagirono stimolando energicamente le aziende a rinnovare impianti, strategie commerciali, qualità dei prodotti.
Il settore pubblico offrì a quello privato tre grandi opportunità: ottenere in larga misura, e a interessi molto bassi, prestiti con i quali finanziare le costosissime operazioni di ammodernamento dei macchinari e degli stabilimenti; acquistare a prezzi assai vantaggiosi combustibili e acciaio, senza dover ricorrere all’importazione; disporre di nuove quote di mercato, che si andavano allargando mano a mano che il denaro dello Stato aiutava in vario modo molti cittadini a passare da una semplice situazione di sopravvivenza alla condizione di “consumatori”. Come Henry Ford qualche decennio prima poté produrre, tramite la catena di montaggio, e vendere a milioni di americani vetture affidabili ed economiche, così la Fiat a metà degli anni ‘50 inaugurò con la 600 la diffusione di massa dell’automobile; analogamente esplose il settore degli elettrodomestici, fino ad allora del tutto sconosciuti in Italia, e che cominciarono a entrare in migliaia di famiglie. Il nostro paese divenne addirittura uno dei primi produttori europei di frigoriferi e utilitarie, appunto esportando in quel Mercato Comune così temuto fino a poco tempo prima da un capitalismo condizionato dai vecchi pregiudizi protezionistici. (Il protezionismo è l’insieme di misure - tariffe doganali, tassazione sui prodotti d’importazione - adottate da un paese che vuole proteggere la propria economia dalla concorrenza dei produttori stranieri: è una strategia vecchissima ma nient’affatto superata, essendo tuttora usata da paesi forti come gli USA, che tuttavia si può ritorcere contro chi l’ha avviata).
La Fabbrica Italiana Automobili Torino era ormai un gigante dell’economia, che non solo ampliava notevolmente i propri campi di attività (dai veicoli industriali al ramo immobiliare, dai trattori alle macchine utensili), ma alimentava un diffusissimo indotto, cioè il tessuto di aziende basate su produzioni collegate: accessori per auto, gomma, plastica, componenti elettriche, benzina, strade, ecc. Come rileva Valerio Castronovo (La storia economica, in Storia d’Italia, Einaudi, 1975, v. 4°, p. 430), circa il 20% degli investimenti realizzati in Italia tra il 1958 e il 1964, una cifra colossale, era collegato alle produzioni Fiat.

Certo, si trattò davvero di un miracolo quello che in pochi anni portò un paese agricolo, arretrato, con un’economia ridotta allo stremo, a diventare una delle nazioni più industrializzate al mondo, ma ciò non avvenne senza pesanti traumi.
Alcuni studiosi sostengono che negli ultimi tremila anni gli esseri umani sono cambiati assai poco per quanto riguarda le caratteristiche di fondo e i comportamenti. Struttura biologica, intelligenza, istinto sessuale, desiderio di comunicare con gli altri, egoismo, paura della morte, forza di sopravvivenza, curiosità, volontà di sopraffazione, necessità di scambi materiali: tutto è più o meno rimasto come prima, salvo un elemento, peraltro decisivo nella storia umana, l’organizzazione sociale che gli uomini (e non è casuale l’uso del termine uomini in luogo di essere umani, essendo stato prevalentemente il maschio a indirizzare le principali scelte) si sono dati per gestire la vita individuale e collettiva. La rivoluzione industriale (intorno alla metà del 1700 in Inghilterra vennero introdotti nuovi sistemi energetici - carbon fossile - , di produzione - macchina a vapore, telaio automatico - e di trasporto - ferrovia: ciò avviò una vera e propria rivoluzione nelle attività produttive, che da una parte portò alla nascita della moderna fabbrica e dall’altra moltiplicò a dismisura le possibilità di creare, e quindi di consumare, prodotti) e le conseguenti rivoluzioni politiche modificarono radicalmente i modi di vivere, e le varie società, prima in Europa e nel Nordamerica, poi in altre zone del mondo, pur evolvendosi in differenti maniere furono necessariamente obbligate a organizzarsi in rapporto ai nuovi e complicati meccanismi della vita quotidiana (i trasporti, la macchina burocratica, lo scambio di informazioni, l’istruzione, l’approvvigionamento delle materie prime e degli alimenti, il tempo libero, la cura del corpo, ecc.). Questa continua trasformazione avveniva dunque all’insegna della complessità, divenuta la caratteristica dominante del nostro tempo.
Anche l’Italia, tutto sommato povera e incolta, era già una società complessa, quindi parlare di programmazione non significa assolutamente pensare alla possibilità di governare rigidamente (sono ben noti i disastri provocati dal sistema sovietico, dagli stessi comunisti non dogmatici definito “comunismo da caserma”, che autoritariamente voleva imporre uno sviluppo e un’organizzazione sociale decisi solo dall’alto) processi economici che in realtà sono continuamente modificati e sollecitati dall’intreccio complesso, appunto, fra desideri individuali, questioni internazionali, spinte culturali, novità tecnologiche, elaborazioni politiche, e così via. Si trattava, tuttavia, di capire che una comunità in tumultuosa trasformazione aveva bisogno di alcune regole tecniche e di criteri di equità che potessero quanto meno fornire degli indirizzi generali nelle grandi scelte. Ma scegliere, come si è già detto, era proprio ciò che non si è mai voluto fare, e quindi la cruciale fase di sviluppo e poi di crisi degli anni ‘50 e ‘60 è rimasta unicamente soggetta ai meccanismi del libero mercato, o per meglio dire di un mercato subordinato ai gruppi industriali più potenti.
Non solo da sinistra, e non solo sulla scia della polemica politica contingente, ma anche da parte dei più autorevoli uomini di cultura ed economisti di formazione cattolica e liberale (in epoche diverse, da Sonnino a Salvemini, da Gobetti a Sturzo, da Vanoni a Saraceno) era stata ripetutamente avvertita la necessità di porre mano a quella che veniva giustamente considerata la principale questione della società italiana, la frattura tra Nord e Sud, la questione meridionale. L’impetuoso sorgere di grandi e piccole aziende coinvolse dapprima il triangolo industriale, per poi allargarsi ad altre zone, soprattutto in Emilia e in Veneto; al Sud, invece, i cosiddetti “poli di sviluppo” da cui avrebbe dovuto irradiarsi l’espansione industriale rimasero poco più che cattedrali nel deserto. Ecco che al tradizionale dualismo fra Nord e Sud (cfr.: Storia d’Italia, op. cit., pp. 2694-2697) si andarono drammaticamente a sommare ulteriori dualismi, se così si può dire: a vaste fasce del Nord ad economia avanzata si affiancavano altre aree settentrionali (ad esempio quelle montane) del tutto tagliate fuori; ad aziende in grado di dotarsi di capitali freschi e di nuove tecnologie facevano riscontro imprese arretrate e nell’impossibilità di autofinanziarsi; a zone meridionali in qualche modo rivitalizzate dall’industria o almeno assistite dall’impiego pubblico si opponevano intere regioni abbandonate a se stesse e prive di qualsiasi prospettiva.
Il tipo stesso di produzioni delle grandi aziende era ovviamente orientato al massimo profitto, e quindi venivano venduti televisori, automobili, macchine da scrivere, motoscooter, trattori, o altre merci assai meno utili (anche da noi prendeva piede il consumismo), ma restavano in secondo piano, se non del tutto ignorate, le iniziative economiche che avrebbero potuto soddisfare bisogni sociali primari: ospedali, scuole, fognature, impianti idrici, strade, case popolari.
Nel 1949 dall’allora Ministro del Lavoro Fanfani fu avviata una grossa iniziativa in questo senso, anche per dare lavoro ai moltissimi disoccupati, e nel giro di una quindicina d’anni furono spesi per l’edilizia popolare (le cosiddette “case Fanfani”, appunto) circa mille miliardi: l’intervento avrebbe comunque dovuto avere ben altra consistenza, ma resta l’ennesima dimostrazione che anche in Italia si poteva attuare una qualche forma di programmazione. In realtà l’edilizia ebbe un forte impulso ma il più delle volte assunse un carattere speculativo: si pensi soltanto ai profitti colossali, e in genere illeciti, realizzati comprando terreni a bassissimo costo a Palermo, Roma, Napoli, e poi edificandoli selvaggiamente; alle innumerevoli opere pubbliche costate dieci volte più di quanto preventivato e magari nemmeno portate a termine; a viadotti e autostrade (molto spesso privi di qualsiasi utilità; o, viceversa, al totale abbandono del territorio, tuttora privo di un moderno sistema di regimazione delle acque (briglie in montagna, manutenzione del letto e degli argini dei fiumi, ecc.). Anche qui dualismo: troppa edilizia dove serviva poco ma rendeva molto (alle imprese costruttrici), quasi niente dove serviva molto ma rendeva poco.
Vi sono state aspre polemiche sulla questione delle autostrade: la loro costruzione fu certo fortemente voluta dalla Fiat, per ovvie ragioni, a tutto scapito del trasporto su rotaia che, soprattutto per le merci, sarebbe stato di gran lunga più economico ed ecologicamente più sano. A posteriori questa obiezione si è rivelata assai fondata, anche se, in una visione di lungo periodo, l’Autostrada del Sole era comunque indispensabile.
La fabbrica, comunque, diventò per molti italiani una sorta di terra promessa: intere famiglie partivano dal meridione o dal Nordest per cercare a Torino o a Milano un’opportunità che nei paese d’origine era impossibile: non era più l’emigrazione di inizio secolo, disperata, senza prospettive, perlopiù indirizzata oltre oceano, perché nelle città del Nord vi erano adesso concrete possibilità di procurarsi un posto di lavoro, e chi ne trovava uno avvertiva gli amici e i parenti rimasti al paese, attivando una sorta di reazione a catena. Quantificare il flusso migratorio è piuttosto difficile, perché spesso molti emigranti mantenevano la residenza nel luogo di nascita, o giunti al Nord cambiavano più volte località, comunque uno studio dell’Università di Napoli ha calcolato che fra il 1951 e il 1974 erano emigrate dal Sud 4.200.000 persone, quasi un quarto dell’intera popolazione meridionale; sempre a partire dal 1951, in quindici anni a Roma la popolazione è aumentata di un milione di unità, a Milano (con immigrazione soprattutto da altre regioni del Nord) di circa 500.000 e così pure a Torino.
Se il miracolo economico restò un elemento fortissimo di attrazione, il fenomeno dell’ emigrazione aveva radici antiche nella secolare povertà delle campagne, soprattutto meridionali, e delle montagne del Nord, condizione per certi versi accentuata dalla parziale riforma agraria: infatti la maggior parte dei braccianti e dei contadini fu esclusa dai provvedimenti governativi e rimase bloccata nella propria situazione di miseria, mentre magari altre persone più fortunate ricevevano finalmente un pezzo di terra o trovavano un impiego. E così si continuava a partire, talvolta ancora per l’America, più spesso verso la Svizzera e la Germania, che da sole nel 1963 raccoglievano l’86% dell’intera emigrazione italiana nell’Europa settentrionale. Al di là dell’insopportabile retorica troppo spesso consumata su questo argomento, ha scritto pagine bellissime Leo Zanier, emigrante carnico in Africa e in Svizzera:

Vivi par no murî
‘l è murî
e partî
nol è murî
un pôc
‘l è murî
un pôc in dì

Vivere per non morire / è morire / e partire / non è morire / un poco / è morire / un poco ogni giorno. Leonardo Zanier, Libers... di scugnî (Liberi ... di dover partire), Garzanti, 1977, p. 39.

Anche nel paese alpino in cui abito, periodicamente passano i venditori marocchini coi loro (brutti) tappeti e un giorno mi è capitato di vedere uno di loro cacciato via in malo modo da un mio compaesano, che sapevo essere stato per molti anni emigrato in Francia; avendogli ricordato questo suo passato che immaginavo lo portasse ad essere un po’ solidale, mi sono sentito rispondere: “Sì, ma noi almeno eravamo cristiani!”. Che dire?


Nel periodo fra il 1953 e il 1963 (con le punte massime negli ultimi cinque anni) la produzione industriale italiana, in particolare metalmeccanica e petrolchimica, aumentò vertiginosamente, più che raddoppiando rispetto agli anni precedenti, e il PIL (Prodotto interno lordo: il valore complessivo dei beni e servizi prodotti in un anno, al lordo degli ammortamenti, cioè comprendendo le spese sostenute dalle aziende per estinguere gradualmente, anno per anno, i debiti contratti per acquistare macchine e in genere fare investimenti. Il PIL è il principale indicatore del ritmo di crescita di un’economia) ebbe un ritmo di crescita unico in tutta la storia italiana. Ma i salari rimasero invariati, e anzi in certi casi diminuirono.
La pesante sconfitta elettorale del Fronte nel 1948 e la scissione della CGIL nel 1950 avevano sicuramente indebolito la classe operaia, ma nelle fabbriche era ancora ben vivo il ricordo della Resistenza e i tanti che avevano combattuto nelle brigate partigiane non erano certo disposti ad accettare che nell’Italia repubblicana i padroni che erano sempre stati dalla parte del fascismo potessero continuare a decidere su tutto. Non che tra gli operai vi fosse l’idea di poter ribaltare completamente i rapporti di forza e magari di arrivare alla “spallata” rivoluzionaria (il 1948 era stata una dura lezione per tutti), ma semplicemente era ben solida e diffusa una moderna coscienza sindacale. E nel periodo di crisi che precedette la fase dell’espansione e del boom, alla decisione delle aziende di effettuare licenziamenti in massa la risposta operaia fu durissima e molte grandi fabbriche furono occupate.

Ma le condizioni politiche generali non erano certamente favorevoli: la sinistra era nettamente in difensiva rispetto alla DC, gli imprenditori sapevano di poter contare sull’appoggio del governo e della stampa, CISL e UIL volevano in tutti i modi differenziarsi dal sindacato rosso, e il Ministro dell’Interno (con la sua celere questura, diceva una canzone) non stava certo a guardare: l’episodio più drammatico a Modena, nel 1950, dove l’intervento della polizia contro gli scioperanti provocò 6 morti. Una dopo l’altra le occupazioni terminarono con la sconfitta pressoché totale dei lavoratori e la rappresaglia fu dovunque molto pesante, come nel caso dell’Ansaldo di Genova dove i licenziamenti furono più di duemila.
Era iniziato quello che senza dubbio rimane come il periodo più difficile per il sindacalismo italiano (il documento forse più significativo di quell’epoca è: Emilio Pugno - Sergio Garavini, Gli anni duri alla Fiat, Einaudi, 1975): in fabbrica i diritti conquistati subito dopo la caduta del fascismo (un locale per le riunioni, una bacheca dove affiggere giornali e comunicati, ecc.) venero liquidati e in moltissimi casi le aziende proclamarono che non avrebbero più trattato con gli organismi sindacali (le Commissioni interne) “guidati dai comunisti”. Nella repressione antioperaia la Fiat fece da battistrada (su esplicita sollecitazione del governo statunitense) e il suo esempio fu seguito da moltissime società: cominciò a licenziare i comunisti ma, accortasi che il più delle volte erano proprio quelli i lavoratori più capaci (non è un caso che quando nella seconda metà dell’800 si cominciarono a formare le prime organizzazioni operaie, queste si diffusero soprattutto fra le categorie più professionalizzate, come tipografi e ferrovieri). In ogni caso fu sempre un punto d’onore per gli operai socialisti e comunisti dimostrare di essere sì i più attivi in campo sindacale ma anche i più bravi nel lavoro), li raggruppò dove potevano essere ben sorvegliati (i tristemente famosi reparti-confino); per continuare a tenere sotto controllo la situazione la Fiat iniziò anche un sistematico lavoro di schedatura dei dipendenti e molti anni dopo, nel 1971, un’inchiesta della magistratura accerterà l’esistenza di un vero e proprio “servizio segreto” interno che nel corso del tempo aveva raccolto più di 150.000 fascicoli sulle tendenze politiche dei dipendenti. Un’altra iniziativa Fiat fu la creazione e il finanziamento di un sindacato aziendale, pilotato dalla direzione, con lo scopo di alimentare la divisione dei lavoratori e comunque indebolire il consenso della CGIL.

I quadri sindacali che non erano stati cacciati continuarono a entrare in fabbrica con l’Unità e l’Avanti!, ma che per il momento la battaglia fosse persa fu drammaticamente chiaro quando alle elezioni per il rinnovo della Commissione Interna, nel 1955, alla Fiat la CGIL per la prima volta perse la maggioranza assoluta. Il fatto era clamoroso e costrinse la CGIL ad avviare un radicale ripensamento della propria strategia: fino ad allora la contrattazione, imperniata sul salario e sull’orario di lavoro, si svolgeva in forma centralizzata, cioè la Confederazione discuteva solo a livello nazionale con le controparti imprenditoriali, e restava del tutto marginale il ruolo dei Sindacati di categoria e delle strutture confederali di zona; occorreva recuperare il rapporto coi lavoratori sulla base di una maggior partecipazione alle scelte, e ciò sarebbe potuto avvenire solo decentrando al massimo le sedi e i contenuti delle trattative, tramite cioè la contrattazione articolata per settori, per zone e soprattutto a livello aziendale. In realtà su questo la CISL aveva già prodotto una propria importante riflessione e stava muovendosi con decisione in tal senso, e se una simile convergenza non consentì nell’immediato di ricucire le profonde lacerazioni fra i due maggiori sindacati, contribuì sicuramente a innescare il processo che dopo qualche anno porterà all’unità d’azione nei principali settori e poi a un formale patto unitario.
CGIL, CISL e UIL hanno più o meno la stessa fisionomia organizzativa: la struttura politica complessiva è quella confederale, a cui fanno riferimento i singoli Sindacati di categoria, che mantengono la propria autonomia per ciò che attiene alla contrattazione; ai vari livelli territoriali le Confederazioni si articolano poi con le Camere del Lavoro (CGIL), le Unioni (CISL), le Camere sindacali (UIL), e i Sindacati di categoria con le rispettive strutture.