BREVE STORIA D'ITALIA

 

IL PRIMO CENTROSINISTRA

Negli anni del miracolo economico si erano aggravati gli squilibri sociali, nel senso che per molte fasce di popolazione nulla era cambiato rispetto ai decenni precedenti, mentre altri settori della società avevano vissuto un netto avanzamento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. Si è già detto di come l’espansione industriale avesse spinto milioni di persone ad abbandonare le aree agricole di pianura e di montagna, ma non erano solo i centri urbani ad essere interessati al fenomeno immigratorio: intorno alle grandi città la campagna lasciò posto a un’intensa edificazione e vicino alle fabbriche i piccoli paesi diventarono ben presto nuclei abitativi ad alta densità, secondo un tipico processo delle società industrializzate in base al quale la città propriamente detta viene progressivamente a trasformarsi in una vasta area metropolitana, dove non vi è soluzione di continuità fra centro storico, periferia e località minori.


Ciò comportò radicali mutamenti nell’organizzazione del tessuto urbano: ogni giorno enormi quantità di persone erano costrette a spostarsi dall’abitazione al lavoro e viceversa, e i problemi connessi (carenza dei mezzi pubblici, traffico, inquinamento, tempi di vita che si modificavano, viabilità insufficiente, ecc.) assunsero dimensioni drammatiche: per anni, tuttavia, questi aspetti restarono del tutto estranei all’impegno dell’amministrazione pubblica, la quale semplicemente lasciò che il fenomeno si sviluppasse in modo spontaneo, senza quegli interventi, anche di prospettiva (piani urbanistici, aree verdi, potenziamento dei trasporti collettivi), che avrebbero potuto disegnare una crescita urbana se non proprio a misura d’uomo almeno con caratteristiche minimamente razionali.
Il cambiamento riguardò in profondità anche i comportamenti individuali, i modelli culturali, gli stili di vita. La prima e principale novità era dovuta al considerevole aumento di reddito da parte di milioni di persone: molte abitazioni venivano trasformate e rese più confortevoli (nel 1951 solo il 7,4% delle case italiane possedeva la combinazione di elettricità, acqua potabile, servizi igienici interni), ma la stessa introduzione di bagni moderni e di elettrodomestici mise in moto un vasto meccanismo, permanente, di crescita dei consumi, con l’acquisto di prodotti per la casa, per l’igiene personale, per l’alimentazione, che proprio in quegli anni diventarono i soggetti più significativi del mercato pubblicitario. E, naturalmente, arrivò la televisione.
Un altro capitolo fondamentale, sia sotto il profilo economico sia sotto quello sociologico, furono i consumi legati al tempo libero e in genere quelli di carattere voluttuario: l’automobile, innanzi tutto, gli scooter, il cinema, i dischi, i cosmetici, gli alcolici, le sale da ballo, e così via. È noto che i libri rimasero e rimangono una voce del tutto marginale: molte sono le sconfortanti statistiche a riguardo, che ci pongono agli ultimissimi posti nella graduatoria dei lettori europei, e basterà aggiungere che circa l’80% degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno. E, a cavallo fra i consumi considerati primari e quelli superflui, non si devono dimenticare due voci che oltre a tutto acquisteranno sempre più rilevanza nella bilancia commerciale con l’estero: l’abbigliamento e il turismo. Vestirsi dignitosamente smetteva di essere un privilegio per pochi (ed era esattamente così fino a pochi anni prima), ma una possibilità per (quasi) tutti, e a ciò si aggiunse una certa modernizzazione della mentalità che portò molte persone, specie di età più giovane, a vedere nell’abito non più un semplice accessorio funzionale ma un modo di esprimere emozioni, gusti, valori; anche andare in vacanza era stato poco più che un sogno per la massa degli italiani, ma una maggior facilità degli spostamenti, unitamente alle più forti capacità di spesa e al mutare delle abitudini, trasformò le ferie in un appuntamento obbligato, pur restando ancora per molto tempo appannaggio di una minoranza.

L’elevazione della scuola dell’obbligo a 14 anni e la riforma della scuola media, nel 1962 (ma nel decennio 1951-1961 non vi furono modificazioni strutturali nel livello d’istruzione, se non nella diminuzione degli analfabeti, dal 13 all’8%, e nell’aumento dei diplomi di media inferiore dal 6 al 10%; solo nei due decenni successivi i dati migliorarono sensibilmente: analfabeti al 5 e poi al 3%; media inf. al 15 e al 24%; media sup. al 7 e al 12%; laurea al 2 e al 3%. Vale la pena notare che nel 1981 il livello d’istruzione del Sud è abbastanza omogeneo alla media nazionale: unica eccezione gli analfabeti, 6,4% al Sud e 3,1 al Nord) aprirono le porte alla scolarizzazione di massa, e anche questo contribuì non poco - seppur con tutti i limiti che vedremo meglio nel capitolo dedicato alla cultura - a trasformare il modo di vita degli italiani. Già, ma le italiane?
Il ventennio di Mussolini aveva celebrato il ruolo della donna: moglie (fedele, non si discute nemmeno) e madre, o al massimo sorella, e lo stesso Pirandello (“fascista per caso” si potrebbe dire, comunque il più grande scrittore italiano moderno) dovette in qualche modo ridimensionare la portata del primo vero romanzo femminista della nostra cultura, L’esclusa. Nel dopoguerra Stato e Chiesa accolsero di buon grado questa consacrazione, né d’altra parte vi erano condizioni socioeconomiche che favorissero un massiccio ingresso della donna nel mercato del lavoro: il boom industriale in alcune zone aveva anche sensibilmente aumentato la quota di occupazione femminile (nell’ambito impiegatizio, nel settore tessile-abbigliamento, nel comparto alberghiero), ma nel complesso il tasso della disoccupazione femminile rimase assai più alto che negli altri paesi europei. Esauritisi poi gli effetti immediati del miracolo economico, furono ovviamente le donne le prime ad essere espulse dal mercato (la loro disoccupazione addirittura triplicò fra il 1963 e il 1983), anche perché il modello culturale proposto in quegli anni stimolava fortemente la centralità della casalinga che acquista i prodotti per la casa e bada ai figli: più consumi, meno servizi sociali, e soprattutto niente grilli per la testa!
E niente politica, ben inteso. Ma questo valeva anche per gli uomini, soprattutto per quelli che un lavoro ce l’avevano e che le aziende avevano provveduto a tenere a bada con le minacce o col paternalismo. Sembrava dunque che dopo la grande ondata repressiva degli anni ‘50 nelle fabbriche l’ordine regnasse sovrano, ma come in fisica ad un’azione corrisponde una reazione uguale e contraria, talvolta anche nella società accade qualcosa di analogo, che cioè un fenomeno contenga in sé anche la propria antitesi: furono le stesse forze capitalistiche che attuarono il boom a colpi (non metaforici) di bastone ad attivare inconsapevolmente una potente controspinta.

emigrazione_3L’emigrazione al Nord fu particolarmente massiccia in quanto nei centri industriali vi erano le condizioni perché ciò avvenisse: le industrie, insomma, avevano bisogno di manodopera e il Sud era un serbatoio gigantesco e assai poco costoso, e gli immigrati non furono subiti dai settentrionali, ma richiesti e, almeno in quanto salariati, graditi. Qualcuno ebbe a dire, non si sa bene se per razzismo o banale ottusità, che i lavoratori meridionali sputarono nel piatto in cui mangiavano, e in effetti fu proprio da loro, e in particolare dai giovani, che partirono i primi segnali che non tutto sarebbe andato come previsto.
Una delle condizioni strutturali alla base del miracolo economico fu che la produzione industriale subì importanti e radicali modificazioni dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro: la fabbricazione o la lavorazione del prodotto tendeva a non basarsi più sull’attività di precisione, su compiti che richiedevano in genere un’alta professionalità, bensì su mansioni ripetitive e ad alta velocità, tipiche in particolare della catena di montaggio, dove i pezzi da modificare o da montare scorrono continuamente davanti a un addetto che manovra una macchina o usa un attrezzo.
Tanta parte della nostra storia recente è scandita dal miglior cinema italiano:

I giovani operai meridionali non si aspettavano certo un lavoro di tutto riposo, ma nemmeno quell’insopportabile e monotono ripetersi di gesti sempre uguali, e in più erano carichi di rabbia per aver dovuto abbandonare la propria terra e la propria cultura, per essere arrivati in una città spesso ostile e avara: furono proprio loro a introdurre nelle fabbriche una nuova carica di combattività e i vecchi operai piemontesi e lombardi, superata una certa diffidenza iniziale, risposero con energia.
L’occasione fu, nel 1962, il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, imperniato sulla riduzione dell’orario settimanale da 44 a 40 ore e sulla diminuzione delle differenze salariali. Le iniziative di lotta trovarono una buona partecipazione nelle fabbriche, ma era proprio l’azienda simbolo, e più grande, che restava totalmente assente: durante la prima giornata di sciopero, dei quasi centomila lavoratori della Fiat non c’era in piazza nessuno. La Stampa (di proprietà degli Agnelli) lodò il loro “senso di responsabilità”, ma forse questo paternalismo fu un’umiliazione gratuita ed eccessiva, perché al secondo sciopero i più sindacalizzati presero coraggio e si unirono al corteo sindacale, e al terzo furono in oltre 60.000 a restare fuori dai cancelli. Di fronte a questa pericolosa e inaspettata inversione di tendenza, la direzione Fiat tentò di dividere il fronte dei lavoratori concludendo un accordo separato con la UIL e il Sida, il sindacato giallo a cui si è già accennato, e, al fine di rendere ancora più efficace la mossa, per la firma scelse proprio il giorno in cui la FIOM-CGIL e la FIM-CISL avevano proclamato uno sciopero di tutti metalmeccanici torinesi: migliaia di operai si riunirono a protestare in piazza Statuto, di fronte alla sede della UIL, e ne nacquero violenti scontri con la polizia. Al di là della gravità dell’episodio, resta il fatto che da quel rinnovo contrattuale riprese, con alterne vicende, un movimento di lotta che negli anni a venire avrà un peso determinante in tutta la vicenda italiana.

Se il boom fu il tratto distintivo di quegli anni, nel mondo politico erano in corso sommovimenti in apparenza assai meno clamorosi, ma che poi ebbero un’evoluzione di grandissimo rilievo.
Dopo l’abbandono di De Gasperi, i governi che si susseguirono non riuscirono mai a trovare quella stabilità che pure sarebbe stata necessaria in una fase di così profonde trasformazioni sociali, anche perché all’interno della DC vi era un’accesa controversia sulla prospettiva politica: si poteva proseguire, come sosteneva Scelba, nella linea centrista che aveva permesso di battere le sinistre ma che manifestava chiari segni di inadeguatezza rispetto al mutare degli eventi, oppure bisognava tentare l’apertura a sinistra, puntando a un’alleanza con l’ala meno radicale e isolando i comunisti? Questa era la tesi dell’uomo di punta del partito, Amintore Fanfani, che per un certo periodo sommò la carica di Presidente del Consiglio a quella di Segretario DC; ma, soprattutto nei partiti moderati, non sempre un dibattito interno si risolve secondo precise discriminanti ideali e prevalgono piuttosto i compromessi di vertice, le intese fra gruppi di potere. E così, se ebbe la meglio la proposta di Fanfani, non fu quest’ultimo a gestirla, bensì la coalizione dei suoi avversari: la sinistra guidata da Aldo Moro, la destra di Andreotti e la nuova grande corrente promossa da molti ex amici di Fanfani, i dorotei (capofila Rumor e Colombo), la cui denominazione deriva dal fatto che la loro prima riunione si tenne nel convento di Santa Dorotea.

Per corrente s’intende un gruppo che si organizza, all’interno di un partito o di un sindacato, per portare avanti un determinato progetto politico, in contrapposizione ad altri gruppi della medesima organizzazione. Nella sinistra comunista, formatasi sull’idea di partito estremamente compatto concepita da Lenin, tale tipo di articolazione interna non fu mai tollerata, e chi in vario modo si muoveva in questo senso veniva espulso per “frazionismo”. In opposizione a compagno, in uso nella sinistra, la DC utilizzò il termine amici per indicare i propri membri.
Al congresso di Firenze (1959) Moro divenne Segretario della DC, ma si guardò bene dal promuovere apertamente l’apertura a sinistra, e avviò quello che divenne il tratto caratteristico del suo agire politico: un sottile e ambiguo intreccio di prudenza e innovazione, lungimiranza e tatticismo. Rinviare e procedere a piccoli passi, era la linea di Moro, e per ridare coesione a un partito reduce da uno scontro intestino di particolare asprezza scelse, come si suol dire, di coprirsi a destra. Il nuovo governò si formò con l’esplicito appoggio dei fascisti e Presidente del Consiglio divenne un esponente della destra DC, Tambroni. Ciò diede al MSI la sensazione, fondata, di poter puntare a un ruolo più di rilievo nel quadro politico e di avere un nuovo spazio di manovra: così convocò il proprio congresso nazionale, per la fine di giugno, in quella Genova operaia, medaglia d’oro della Resistenza, che nel ‘48 era praticamente insorta.


Migliaia di portuali, ma anche di ragazzi con le magliette a strisce che usavano allora, scesero in piazza ben decisi a impedire la provocazione: gli scontri con la Celere furono durissimi e ancora si possono vedere nei cinegiornali dell’epoca i frenetici caroselli delle camionette nella splendida piazza De Ferrari. Il congresso del MSI non si tenne, ma Tambroni non poteva perdere la faccia e diede ordine alle Questure di intervenire ovunque con la massima decisione. Nel corso di una grande manifestazione sindacale, a Reggio Emilia, la polizia sparò sulla folla e cinque operai vennero uccisi; ai morti di Reggio Emilia ne seguirono altri, in Sicilia, e lo sciopero generale bloccò l’Italia. Che vi fosse o meno un disegno golpista analogo ai piani del ‘64 e del ‘71, la sterzata autoritaria venne bloccata e non solo Tambroni fu costretto a dimettersi, ma la DC capì che l’avvicinamento a sinistra era una meta obbligata.


Ne era convinto lo stesso governo statunitense, che con la presidenza Kennedy aveva assunto in politica estera iniziative di grande apertura, e anche da parte del Vaticano era venuta meno la posizione assolutamente intransigente di pochi anni prima. Giovanni XXIII fu probabilmente il più grande innovatore che la Chiesa cattolica avesse mai avuto e l’enciclica Pacem in Terris (1963) segnò davvero una svolta epocale: scomparso ogni accento di guerra santa, il compito dei credenti veniva prospettato come un cammino che doveva coinvolgere “tutti gli uomini di buona volontà”, nel comune sforzo per un nuovo ordine mondiale basato sulla coesistenza pacifica e sull’annullamento delle gravissime diseguaglianze fra Nord e Sud del pianeta; il Concilio Vaticano II del 1965 sancirà solennemente questa svolta e avviò profonde trasformazioni interne alla Chiesa cattolica.
Nella DC andavano dunque rafforzandosi le tendenze più riformiste: sostenute con grande tenacia da brillanti economisti come Pasquale Saraceno, uno dei più convinti assertori della politica di piano, e da tecnocrati del calibro di Mattei, il quale fece del Giorno, quotidiano di proprietà dell’ENI, il battagliero portavoce di tali idee, esse trovarono un riscontro particolarmente significativo nell’elaborazione che veniva maturando nell’area laico-socialista. Sotto questo aspetto un ruolo importante giocarono gli uomini che un tempo erano stati l’anima del Partito d’Azione, e che si erano ritrovati nel PRI, diretto da un sincero riformista come Ugo La Malfa, o nel PSI, mentre decisamente di basso profilo fu il contributo del PSDI. Una parte del PSI, tuttavia, quella legata alle posizioni di Basso, si batté fermamente contro il centrosinistra, che giudicava un’operazione trasformistica in cui le componenti riformatrici si sarebbero trovate in completa subalternità rispetto alle istanze conservatrici della DC: la radicalità di questa opposizione non riuscì poi a trovare alcuna mediazione con la linea di Nenni, e spinse un consistente gruppo di sindacalisti, guidati da Vittorio Foa, e di intellettuali a staccarsi definitivamente dal PSI e a fondare (1964) il PSIUP (Partito Socialista di Unità Proletaria). Al contrario, altri esponenti della sinistra interna, come Riccardo Lombardi, videro nel centrosinistra una grande occasione per spezzare il ruolo egemonico esercitato dalla DC e attivare progetti di inovazione strutturale proprio a partire dall’entrata nella “stanza dei bottoni”. Era un’ipotesi che si rifaceva senz’altro a quella strategia delle “riforme di struttura” prospettata dallo stesso PCI, rovesciandone però l’impianto originario, che invece aveva come presupposto la cacciata della DC all’opposizione.



Fu un dibattito forse fra i più interessanti in cui la sinistra italiana si sia mai cimentata: per la prima volta il punto di partenza non era la disputa ideologica, ma l’analisi concreta della situazione concreta. Nel PCI non furono pochi coloro i quali, come Giorgio Amendola, assunsero una posizione possibilista, attenta agli sviluppi che poteva assumere un quadro fino a quel momento dominato dalla pervicace chiusura centrista della DC; prevalse tuttavia lo scetticismo nei confronti di un esperimento che aveva di fronte a sé enormi incognite.
La più pesante fra esse era certamente rappresentata dall’aperta ostilità della maggioranza di Confindustria, che vedeva nel centrosinistra una pericolosa base d’appoggio alle rivendicazioni sindacali; oltre a tutto il governo stava preparando la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che avrebbe messo fuori gioco le grandi aziende private che fino allora avevano controllato questo decisivo settore dell’ economia. I 1500 miliardi (corrispondenti grosso modo a 23.000 mld di oggi, ovvero 12,5 mld di euro) pagati dal governo come indennizzo furono decisamente un buon affare per le società elettriche, ma l’avversione degli industriali per la nuova prospettiva politica fu accentuata da alcune misure, peraltro piuttosto blande, di tassazione dei profitti derivanti dai guadagni sulla compravendita di azioni. Un ulteriore motivo di attrito fra grandi imprese e governo fu la proposta di legge sull’urbanistica, che intendeva introdurre alcuni elementi di regolamentazione in un settore, quello edilizio, che, come si è visto, era fonte di proventi elevatissimi: l’idea era quella di consentire ai Comuni di espropriare le aree che sarebbero state oggetto di edificazione, per evitare il solito gioco speculativo in base al quale si compravano a basso prezzo terreni che, una volta divenuti fabbricabili, avrebbero visto il loro valore aumentare in modo astronomico. Si trattava, insomma, di una riforma di elementare equità, ma quel che è troppo è troppo: dalla Confindustria e dalla stampa conservatrice si gridò al tentativo di “sovietizzare” la terra, e la DC fece bruscamente marcia indietro.
Ciò non le impedì, alle elezioni politiche del 1963, di arretrare pesantemente, scendendo per la prima volta al di sotto del 40%: con il 38,3% il distacco dai comunisti, saliti al 25,3%, restava ancora assai ampio, ma non sembrava più incolmabile come quello del ‘48. Una ragione in più per procedere più speditamente alla convergenza DC-PSI che, già sperimentata in alcune giunte locali come quella di Milano, si formalizzò nel dicembre 1963, con la costituzione del primo governo organico di centrosinistra, con Moro Presidente del Consiglio e Nenni Vicepresidente.


Che l’alleanza fosse ancora instabile e comunque soggetta a forti elementi di destabilizzazione fu chiaro appena pochi mesi dopo: in seguito all’ennesima crisi di governo, il Presidente della Repubblica Antonio Segni, notoriamente poco favorevole all’esperienza del centrosinistra, convocò al Quirinale (luglio 1964) il generale De Lorenzo, comandante dell’Arma dei Carabinieri. Nulla si seppe di quel colloquio, ma l’iniziativa fece pensare al peggio (era casuale che proprio in quei giorni si svolgesse in Italia un’importante esercitazione della NATO?), tanto che i socialisti annullarono immediatamente le perplessità sul proprio rientro al governo e permisero che la crisi si risolvesse in pochi giorni. Cosa fosse accaduto in quelle ore lo si seppe solo alcuni anni più tardi, quando una commissione parlamentare indagò espressamente su quei fatti: il generale De Lorenzo aveva allestito un’unità speciale ad altissimo grado di addestramento e capacità operativa, dotata di mezzi corazzati e di armamenti sofisticati, un “piccolo esercito personale, superiore per disciplina ed efficienza al resto delle forze armate” (Ferruccio Parri, articolo sulla rivista L’Astrolabio). Insomma, una vera e propria struttura golpista, che avrebbe dovuto agire nell’ambito del cosiddetto piano “Solo”: gli alti comandi dei carabinieri (solo i carabinieri) avevano ricevuto un dettagliato programma antisovversivo, che prevedeva l’occupazione delle stazioni radiotelevisive e degli uffici pubblici, l’arresto su larga scala degli esponenti politici e sindacali pericolosi, la chiusura delle sedi di partito. Non si trattò, insomma, di un vero e proprio tentativo di colpo di stato, perché l’ordine di far scattare il piano non fu impartito, ma senza dubbio ci si andò vicinissimi.

Le riforme annunciate - urbanistica, fisco, università, programmazione economica, istituzione delle Regioni - si persero nelle sabbie mobili dell’indecisione e della politica del giorno per giorno, e l’unica che fu realizzata fu quella che portava l’obbligo scolastico a 14 anni e unificava le varie tipologie di istruzione inferiore nell’attuale scuola media, ma sempre all’interno di un sistema scolastico a dir poco arcaico.
L’elezione a Presidente della Repubblica del socialdemocratico Giuseppe Saragat suggellò il riavvicinamento fra PSI e PSDI, che nel 1966 si riunirono nel PSU (Partito Socialista Unificato, che tre anni dopo si spaccò nuovamente), ma ciò non servì molto a riequilibrare in termini di effettivo potere il ruolo dei socialisti rispetto alla DC, che in quegli anni di immobilismo (almeno dal punto di vista delle riforme) capì prima di qualsiasi altro partito che fare politica in una società moderna significa innanzi tutto promuovere e mantenere una rete permanente di rapporti con i vari gruppi sociali: se l’interclassismo fu all’ inizio una scelta ideologica della DC, da tradurre in pratica a partire dalle spinte che provenivano da una base elettorale eterogenea, e quindi portatrice di esigenze spesso in contraddizione fra loro, in seguito divenne una vera e propria strategia di costruzione del consenso: non si trattava più di farsi condizionare dalla società, bensì, al contrario di dominare le forze che essa sprigionava e di armonizzarle in un disegno consapevole. La politica clientelare (i clientes, nell’antica Roma, infatti non erano tanto coloro che assillavano i potenti, quanto le persone che si mettevano sotto la loro protezione e ne ricevevano i favori) riacquistò il suo antico significato e la DC seppe farsi interprete e guida al tempo stesso di un insieme di interessi e aspirazioni come nessun altro partito fu in grado di fare.


L’occupazione dello Stato, o, per meglio dire, la ricostruzione e l’ampliamento dello Stato sotto forma di apparato di formazione e di controllo del consenso, era certo una pratica eticamente discutibile, ma sicuramente fu una risposta reale e a suo modo assai efficace ai problemi del paese. Il problema casomai consisteva nel fatto che si era venuto a creare un sistema che per definizione era inefficiente: laddove gli interessi personali o politici erano diventati il criterio prioritario con cui amministrare un ente, erogare contributi, gestire aziende, spendere denaro, tutto ciò non poteva non ritorcersi contro il sistema stesso. Il sogno di Mattei, di avere un’industria pubblica all’avanguardia, in grado di competere ai massimi livelli e di fornire risposte positive allo sviluppo, si deformò al punto da divenire la negazione di tutto questo: colossi industriali ridotti a macchine elettorali che inghiottivano miliardi, che producevano ricchezza per ristretti centri di potere. Fu proprio il successore di Mattei alla direzione dell’ENI, Eugenio Cefis, a elevare tale pratica a livelli mai raggiunti in precedenza: nata dalla fusione di due grandi aziende, la Montecatini e l’Edison, la Montedison fu scalata (dare la scalata a una società significa rastrellarne le azioni fino ad acquisire la maggioranza, o perlomeno una robusta quota, del pacchetto azionario, prendendo quindi il controllo dell’azienda: è ovviamente un’operazione molto costosa e che richiede notevoli abilità di manovra per dissimulare il proprio intendimento, stringere alleanze, ecc.) dall’ENI e Cefis stesso ne assunse la presidenza, facendone un impero finanziario, tanto potente quanto intrinsecamente fragile.
Dove i legami fra potere politico e interessi economici diventarono ben di più di un discutibile modo di amministrare, ma si configurarono come un vero e proprio sistema illegale, fu in Sicilia, in Calabria e in Campania.
Con la fine degli anni ‘50 la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra non furono più il semplice braccio armato dei latifondisti, ma divennero esse stesse “aziende”: la speculazione edilizia e gli appalti pubblici furono una fantastica miniera d’oro (negli anni recenti sostituita dalla miniera ancora più ricca del traffico d’armi, del racket, del commercio di eroina), la cui sicurezza era garantita da una polizza d’assicurazione solidissima, il potere politico.
Salvo Lima e Vito Ciancimino, della corrente andreottiana, furono assessori ai lavori pubblici (un ruolo chiave, com’è intuitivo) di Palermo dal 1956 al 1964, e successivamente anche sindaci, proprio nel periodo in cui la città fu devastata dall’assalto mafioso e dalla cementificazione.