BREVE STORIA D'ITALIA

 

LA GUERRA FREDDA

In realtà, che le sorti della guerra fossero ormai decise era chiaro già da tempo (dal giugno del ‘44, quando riuscì efficacemente lo sbarco in Normandia) e il problema era quanto a lungo i tedeschi (e i giapponesi nel Pacifico) sarebbero ancora riusciti a tener testa alle truppe alleate. Tant’è che nel febbraio del ‘45 i capi supremi della coalizione (W. Churchill, Primo ministro del Regno Unito, F. D. Roosevelt, Presidente gli Stati Uniti d’America e J. Stalin, Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica) si riunirono non solo per mettere a punto la strategia finale della guerra ma anche per concordare i futuri assetti politici mondiali, soprattutto per quanto riguardava l’Europa. L’incontro avvenne in una cittadina della Crimea, ed è ricordato come Conferenza di Yalta.
Nell’URSS, che era a tutti gli effetti uno Stato federale, il Segretario del PCUS ebbe sempre un ruolo preminente rispetto alle cariche di Presidente della Repubblica e di Primo ministro.
Può essere utile avere i riferimenti dei capi delle due superpotenze. Presidenti USA: Wilson 1913-21, Harding 1921-28, Hoover 1928-32, F. D. Roosevelt 1932-45, Truman 1945-53, Eisenhower 1953-60, Kennedy 1960-63, Johnson 1963-68, Nixon 1968-74, Ford 1974-76, Carter 1976-80, Reagan 1981-88, Bush 1988-92, Clinton 1992-2000, Bush jr. 2000-08. Segretari PCUS: Lenin 1917-1924, Stalin 1924-1953, Krushëv 1954-1964, Breznev 1964-82, Andropov 1982-84, Cernenko 1984, Gorbacëv 1985-91. Con lo scioglimento dell’URSS, la Repubblica Federativa Russa (presieduta da Boris Eltsin) mantenne una posizione di rilievo nello scacchiere politico mondiale, ma con un peso politico-militare nemmeno lontanamente paragonabile a quello dell’URSS.
È allora indispensabile, al fine di comprendere le questioni interne all’Italia, una breve digressione per descrivere schematicamente il nuovo scenario mondiale postbellico.
Sostanzialmente a Yalta i “grandi” stabilirono le rispettive zone d’influenza: si prese atto, cioè, che nel corso degli anni i vecchi equilibri politici, fondati in buona misura sulla posizione preminente delle potenze coloniali europee (Gran Bretagna e Francia), erano radicalmente mutati, spostando il proprio asse sui due paesi che dal punto di vista economico e militare, e quindi anche politico, avevano assunto un ruolo trainante: USA e URSS erano di fatto le due superpotenze che uscivano dalla guerra mondiale in qualità di leader dei due grandi blocchi che sempre più andavano contrapponendosi sul piano ideologico. Paradossalmente, proprio nel momento di massima coesione dell’alleanza antihitleriana, si andavano ponendo le basi di quel lungo e complesso periodo di conflitto fra i paesi occidentali e quelli dell’Est, e in generale del mondo comunista, che prese il nome di “guerra fredda”: un’espressione che non indica semplicemente come la sfida fra i blocchi si sia sviluppata sostanzialmente in modo incruento (pur con alcuni episodi di vera e propria belligeranza, come la guerra di Corea, 1950-1953), ma anche come questa contrapposizione avesse un carattere molto aspro, tanto da essere più o meno sempre stata sul punto di esplodere in uno scontro armato a livello planetario.
Occorre tener presente che la sostanza politica differisce quasi sempre dalle “versioni ufficiali”: i vari partner occidentali mantenevano formalmente una posizione di pari importanza, ma a tutti era chiarissimo che gli USA, come del resto era logico, erano la guida della coalizione. Per l’URSS, invece, tale ruolo era assolutamente esplicito.


Ma se è vero che con il crollo del Muro di Berlino (1989) e con il dissolvimento dell’URSS (1991), sono venute meno le componenti di fondo di questa gravissimo contrasto politico-militare, non si può affermare che in assoluto siano scomparsi gli elementi che possono produrre la ripresa di una qualche forma di guerra fredda: anzi, per assurdo si potrebbe dire che il nucleo stesso della sfida est-ovest, il fattore ideologico, contenesse al proprio interno alcuni anticorpi che in qualche modo frenavano la tendenza permanente al passaggio dalla fase “fredda” a quella “calda”; In ogni caso occorre tenere presente il freno potentissimo costituito dal cosiddetto “equilibrio del terrore”: USA e URSS disponevano di arsenali nucleari di analoga entità, e ciò escludeva che una delle due superpotenze potesse pensare di sferrare un attacco all’altra senza provocarne l’immediata, e ugualmente devastante, reazione. E, date le caratteristiche stesse di tali armamenti e la loro dislocazione diffusa nei paesi alleati, non era ipotizzabile un conflitto geograficamente limitato: un’eventuale guerra avrebbe coinvolto l’intero pianeta, distruggendolo.
L’annullamento della contrapposizione comunismo-capitalismo ha dunque lasciato spazio in molte zone del mondo ad altri tipi di tensione, non riconducibili a uno schema di valori rigido ma chiaro (e quindi maggiormente controllabile), bensì carichi di ambiguità e di intrecci spesso indecifrabili. Afghanistan, Albania, Algeria, Bosnia, Cecenia, Iraq, Rwanda, Somalia, Sri Lanka: vediamo ogni giorno come confusamente si mescolino etnia, politica, interessi finanziari, religione, questioni sociali, in scenari di guerra la cui dimensione locale può estendersi imprevedibilmente, magari proprio ad opera di qualche potentato economico mimetizzato fra le pieghe della diplomazia internazionale.
In ogni caso è rispetto alla guerra fredda che venne scandita l’evoluzione della situazione europea. Le varie Conferenze internazionali (in quella di San Francisco, del giugno ‘45, fu creata l’Organizzazione delle Nazioni Unite) non riuscirono a stemperare i motivi dello scontro ma solo a sancire la situazione di fatto determinata dai rapporti di forza fra i due blocchi, esemplificata per un verso dalla divisione (1947) della Germania in due stati contrapposti, per altro verso dalla creazione (1949) dei due sistemi di alleanza politico-militare nei quali erano inseriti i paesi subordinati a USA e URSS: la NATO (North Atlantic Treaty Organization) e il Patto di Varsavia. Rispetto a questo assetto molto rigido vi furono vari tentativi di superare tale sistema “bipolare”, ma il quadro generale rimase caratterizzato per decenni dal predominio delle due superpotenze nucleari. In realtà non si può meccanicamente datare alla fine del secondo conflitto mondiale, cioè quando non ha più ragione d’essere la grande coalizione antinazista, l’instaurarsi della guerra fredda.

Nel blocco orientale la leadership sovietica venne messa in discussione solo dalla Jugoslavia di Tito (che nel ‘48 venne espulsa dal Kominform, l’organizzazione internazionale che raggruppava i partiti comunisti) e, all’inizio degli anni ‘60, dalla Cina, che ruppe violentemente con Mosca e puntò a creare una propria zona d’influenza in Estremo Oriente. A ovest la Francia tese sempre a mantenere una certa posizione autonoma. Inoltre, con la Conferenza di Bandung (1955), cominciarono ad esercitare anche una certa influenza (ovviamente solo a livello politico) i cosiddetti Paesi non allineati, che cioè non facevano capo a nessuna delle grandi potenze, pur essendo in buona parte ex colonie occidentali: Egitto, Filippine, India, Indonesia, Iran, Iraq, Jugoslavia, Thailandia, Turchia, ecc..
L’Unione Sovietica, se al suo nascere (1922, cinque anni dopo la rivoluzione) ebbe bisogno di consolidare la propria situazione interna e rinunciò senz’altro all’idea di “esportare” immediatamente la rivoluzione come invece in qualche modo teorizzava Trotsky con la sua idea di rivoluzione permanente, si pose come punto di riferimento naturale per i movimenti rivoluzionari che in tutto il mondo lottavano contro i regimi autoritari e anche contro le democrazie liberali. Questo solidissimo legame era basato su uno di quei tragici paradossi che tanto spesso segnano la storia: i partiti comunisti - dalla Cina alla Spagna, dal Messico al Regno Unito, e ovviamente all’Italia - guardavano a Mosca come a una sorta di faro della libertà, senza rendersi conto che dopo la morte di Lenin (1924) il potere dei soviet era stato in poco tempo drasticamente ridotto e di fatto sostituito dallo strapotere della burocrazia di partito, il tutto per un preciso disegno di quel nuovo Segretario generale, Stalin, che pure il suo predecessore aveva giudicato inaffidabile: il potere passò dagli organismi rappresentativi degli operai, dei soldati, dei contadini, al partito, da questo al Comitato Centrale, e da questo al Segretario del partito: insomma, la dittatura del proletariato fu sostituita dalla dittatura, di Stalin, sul proletariato.
Negli Stati Uniti - che già dopo il 1918 si avviavano a divenire la più forte potenza occidentale - era da tempo consolidata una cultura politica che tendeva ad affermare decisamente la superiorità della democrazia americana rispetto a quelle europee: questo “destino” degli USA di diventare un esempio per tutti i popoli e di esercitare quindi la propria leadership mondiale, fu fortemente teorizzato da vari presidenti, che diedero a questa visione addirittura il carattere di una “missione da compiersi sotto ispirazione divina” al fine di preservare l’umanità dal comunismo (frase del presidente Wilson citata in: Massimo L. Salvadori, Europa America Marxismo, Einaudi, 1990, pag. 80). Del resto, è noto che Churchill, pur essendo un fiero avversario del nazismo, prese in seria considerazione l’ipotesi di una pace con Hitler per rivolgere le armi verso i sovietici. E fu proprio Churchill, nel 1946, il primo statista occidentale a proclamare l’assoluta necessità della guerra fredda nei confronti dell’URSS: a lui è attribuita l’espressione “cortina di ferro” per definire il confine europeo est-ovest.
In Italia la Chiesa cattolica ebbe un ruolo di primo piano nell’orientare le scelte politiche dei cittadini, soprattutto mettendoli in guardia contro “l’influsso continuo della scuola areligiosa, i pericoli della strada, l’aria moralmente malsana o forse corrotta della fabbrica.” E così prosegue Pio XII: “Oggi l’avversario giudica l’opera sua abbastanza avanzata per muovere all’assalto definitivo” (cit. in: Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, 1989, pag. 134. Senza nulla togliere alle importanti opere degli storici italiani, da Candeloro a Procacci, è a questo studioso inglese che in particolare ci sentiamo debitori: il suo lavoro unisce brillantemente il rigore scientifico e una notevole capacità divulgativa).
Parole che evocano l’Apocalisse, ma in realtà il governo presieduto dal cattolicissimo De Gasperi non cedette subito alle formidabili pressioni vaticane per cacciare i comunisti dal governo, e conservò una propria autonomia di manovra; più convincente, forse, fu il contributo di 176 milioni di dollari che lo stesso De Gasperi ricevette dal governo statunitense come prestito per la ricostruzione, e decisiva, nella primavera del 1947, la svolta in senso nettamente antisovietico della politica estera americana: la “dottrina Truman” era chiara: “La politica degli Stati Uniti deve essere quella di aiutare i popoli liberi che si oppongono ai tentativi di soggiogarli da parte di minoranze armate o da parte di pressioni esterne” (Cit. in: Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, 1995, pag. 271).
E infatti alla fine di maggio del 1947 si costituì il primo governo di centro, da cui erano esclusi i partiti di sinistra.