Genova 2001

 

 

 

 

Haidi Gaggio Giuliani

Il sangue e le bugie della Diaz

Lena mi ha regalato un piccolo carillon, di quelli che sembrano senza voce, ma se li avviti a un tavolo o a una libreria acquistano tutta la sonorità del legno. Quando passo da casa, quando sono sola, giro la minuscola manovella e ascolto le note dell'Internazionale. Mi fanno bene al cuore. Lena è una minuta ragazza tedesca: era a Genova nel luglio del 2001 e la sera del 21, dopo aver assistito per due giorni alle violenze delle forze dell'ordine, apparentemente impazzite, su manifestanti inermi, era tornata a dormire nella scuola Pertini-Diaz prima di ripartire per il suo paese.

La sua testimonianza lucida e coraggiosa è stata registrata durante una delle prime udienze di uno dei processi in corso a Genova. Doppiamente coraggiosa, perchè non tutte le vittime di quelle giornate hanno avuto l'animo di ritornare nella nostra città, di ricordare, di denunciare; e perchè, durante la sua deposizione, è stata più volte oggetto della pesante, a tratti persino volgare, ironia da parte dei difensori dei dirigenti di Polizia indagati. Lena ha raccontato il modo in cui è stata raggiunta da tre agenti e picchiata, presa per i capelli e trascinata giù per le scale come uno stuoino; di come tentasse di riparare  dai colpi le costole fratturate stringendo al petto le braccia e contemporaneamente mettere le mani avanti per non sbattere i denti sui gradini, ma di come un agente le colpisse accuratamente le dita col manganello; dei calci ulteriori ricevuti mentre attendeva il suo destino, buttata in un angolo con altre persone ferite. Lena è stata in coma, come Marc; si sono salvati tutt'e due, lei un po' di più perchè ha ritrovato la forza di sorridere.

La palestra della scuola Pertini-Diaz ha raccolto il sangue e i racconti di 93 persone, indagate per resistenza e violenza e in seguito completamente scagionate. Contro di loro solo prove false, tra cui due bottiglie incendiarie, portate nel luogo della mattanza, come l'ha giustamente definito qualcuno, da agenti della stessa polizia, ora accusati. Accusati di poco, direi: dato che non è stato possibile identificare gli autori materiali (a quanto pare non si usa fare l'appello, come a scuola, prima di un intervento repressivo), alla sbarra si trovano (o dovrebbero trovarsi ma non è facile vederli) i loro diretti superiori, che hanno ordinato, giustificato e coperto le violenze, giurando il falso. Il tempo gioca a loro favore, la prescrizione per decorrenza dei termini è alle porte.

Nel frattempo la catena di comando presente a Genova nel 2001, e non solo, ha fatto carriera: molti stati promossi a cariche di grande responsabilità. Ma non basta: le due bottiglie molotov spariscono e il processo, già così lento, si "congela". I più congelati siamo noi, cittadini e cittadine che vogliono ancora credere in questa democrazia, nell'autonomia del potere giudiziario, nella capacità di riscatto morale del nostro paese. Che cosa diremo a Lena, quando tornerà a chiederci ragione delle sofferenze subite? Che cosa diremo a tutti i ragazzi e le ragazze come lei, quando torneremo a pretendere da loro il rispetto della legalità?

AprileOnline 19.1.2007

Enrica Bartesaghi

Lettera aperta ai giornalisti di Repubblica e Unità

In qualità di presidente del Comitato verità e giustizia per Genova, vi scrivo per chiedere scusa.

Chiedo scusa a nome delle centinaia di manifestanti arrestati, feriti, umiliati e torturati nel mese di luglio del 2001 a Genova, nelle strade, nelle piazze, alla scuola Diaz, nelle caserme di Bolzaneto e Forte San Giuliano.
Noi allora non lo sapevamo che avremmo (dopo ben sei anni) causato l’allontanamento di De Gennaro dal vertice della Polizia italiana. Che quei giorni avrebbero macchiato la sua onorata carriera (anche se si tratta di una macchia davvero piccola, di quelle che il Ministro degli Interni, Amato, ha subito lavato nominandolo a capo del suo gabinetto). Che, per colpa nostra, De Gennaro sarebbe stato indagato per istigazione e induzione a falsa testimonianza.

Giustamente nei giorni scorsi sui quotidiani La Repubblica e l'Unità avete ripetutamente sottolineato tutto l’orrore di questa faccenda  incresciosa, ridando all’uomo ed al poliziotto tutta la sua onorabilità. E non siete stati i soli, numerosi parlamentari (di destra, di centro e di sinistra), a partire dall’on. Violante hanno fatto lo stesso. Perché De Gennaro è stato un capo della polizia “bipartisan” nominato dal centro-sinistra, confermato dal centro-destra, nuovamente confermato dal centro-sinistra, un uomo “quattro-stagioni” come la pizza.

È vero, alla Diaz, abbiamo fatto di tutto per farci massacrare, fingendo di dormire, alzando le mani di fronte ai manganelli e chiedendo pietà. Abbiamo anche costretto un poliziotto a fingere un accoltellamento, altri a dover portare nella scuola due bottiglie molotov, altri a firmare verbali falsi, ma che altro potevamo fare? Mettetevi nei nostri panni e, cercate di non sporcarvi,  perché sono ancora pieni di sangue. E il sangue, come ogni casalinga che si rispetti sa bene, non si lava facilmente.

Meno male che nel frattempo altri solerti poliziotti hanno provveduto a distruggere le due molotov!

E a Bolzaneto? Abbiamo fatto di tutto per costringere poliziotti, carabinieri, guardie penitenziarie, medici ed infermieri a divertirsi con noi. Non sapendo come passare il tempo, abbiamo giocato a nascondino, rimanendo anche dieci ore in piedi con le braccia alzate contro il muro e le gambe divaricate. Ma i nostri torturatori sono stati buoni con noi e non si sono nascosti tanto bene. Così si sono fatti scoprire, da noi e dalla Magistratura. Che risate ci siamo fatti mentre spaccavano la mano ad uno di noi e la cucivano senza anestesia, ci spruzzavano gas irritanti, ci accompagnavano al bagno con la testa per terra tra insulti e botte, ci minacciavano di morte e di stupro. Ancora mi piangono gli occhi al ricordo.

Ma non è stata solo colpa nostra. Siamo poi stati ingannati da quei “terroristi” di Amnesty International che hanno dichiarato che a Genova c’è stata la più grande violazione dei diritti umani in un paese occidentale dal dopoguerra. E noi ci abbiamo creduto, voi no per fortuna.

Che ne sapevamo noi, allora, che De Gennaro, Manganelli, Gratteri ed altri, avevano un solido trascorso nell’antimafia, addirittura a fianco di Falcone e Borsellino? Vi assicuro: non ce l’hanno detto, né alla Diaz, né a Bolzaneto, altrimenti non ci saremmo fatti massacrare e torturare con il rischio di rovinare la loro splendida ed onorata carriera. Meno male che il governo Prodi ha sistemato decorosamente De Gennaro e Manganelli. Oggi sull’Unità si parla di Gratteri come uno dei  probabili vice e, giustamente, il giornalista ha tralasciato di scrivere che Francesco Gratteri è uno dei 29 imputati per il processo Diaz; ringrazio il giornalista per la dimenticanza,  altrimenti avrei dovuto scusarmi anche con lui.

Chiedo scusa anche al dottor Manganelli, che non era a Genova nel 2001, anzi stando a quanto riportato dai vostri quotidiani era in ferie. Ebbene, sappiate che il 21 luglio, prima, durante e dopo l’irruzione alla Diaz, fu comunque in costante contatto con i dirigenti imputati, come lui stesso ha riconosciuto quando e’ stato chiamato in tribunale come testimone nel processo Diaz, il giorno 2 maggio del 2007.  Per alcuni davvero non ci sono mai vacanze.

Per fortuna, nonostante tutto il casino che abbiamo fatto, né De Gennaro, né il governo Berlusconi, né il governo Prodi si sono lasciati sviare dalle nostre testimonianze. Infatti gli imputati, più alti in grado, per i fatti della Diaz e di Bolzaneto sono stati tutti promossi. Questori, vice-questori, dirigenti: Gilberto Caldarozzi, Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Spartaco Mortola, Filippo Ferri, Vincenzo Canterini, Alessandro Perugini.

A tutti loro, a De Gennaro, a Manganelli,  ed a voi giornalisti di Repubblica e dell’Unità impegnati quotidianamente nel duro lavoro di informare correttamente gli italiani, ancora grazie!

Grazie a loro ed a voi abbiamo definitivamente capito cosa significano in Italia le parole: libertà, verità e giustizia.

Enrica Bartesaghi
Presidente Comitato verità e giustizia per Genova

giugno 2007

Giuliano Giuliani

I cori disgustosi dei carabinieri di Genova

I cori disgustosi dei carabinieri a Genova vi indignano come le grida su Nassiriya?
"Benvenuto tra gli assassini", "ciao killer", "morte sua vita mia", e poi una bella canzoncina su Carlo, non è difficile immaginarne contenuto e ispirazione. Non è una visita al museo degli orrori, è l'accoglienza festosa (e lugubre) che i colleghi hanno riservato a Mario Placanica al suo rientro in caserma, dopo che era stato ucciso Carlo Giuliani e a lui - Placanica - era stata attribuita la responsabilità. È Placanica stesso ad averlo ricordato nell'intervista rilasciata a Calabria Ora, e lo ha ripetuto anche in diretta televisiva. Non si capisce perché avrebbe dovuto inventarselo. D'altra parte le frasi non sono molto diverse da quelle che, come riferirono le cronache di allora, furono costretti ad ascoltare i cittadini genovesi residenti alla Foce, di fronte all'acquartieramento dei carabinieri chiamati a Genova a difendere l'ordine pubblico. Ma una differenza c'è: oggi le ricorda un ex carabiniere.
Sono espressioni disgustose, denunciano un clima bestiale, inaccettabile. Non posso sottrarmi a un paragone. Qualche giorno fa, a Roma, alcuni individui gridano uno slogan orribile, truculento: 10, 100, 1000 Nassiriya. Giustamente si leva un coro unanime di indignazione, un coro bipartisan di sdegno e di condanna. Scende in capo anche il capo dello Stato. Sto aspettando pazientemente che qualche voce si levi forte e chiara, con la stessa indignazione, con lo stesso sdegno. Perché identicamente disgustose sono le parole che hanno accolto Placanica al suo rientro, identicamente inaccettabili.
Con l'aggravante che sono state pronunciate da individui in divisa. Chissà se si vorrà chiedere conto agli ufficiali sulla piazza, suoi superiori diretti, che, stando alle dichiarazioni di Placanica, sparano i lacrimogeni in faccia ai manifestanti ("io li sparavo a parabola, come mi hanno insegnato", dice Placanica) o picchiano a sangue chi compie il reato di aver in mano una macchina fotografica (si è visto a che cosa possono servire le fotografie). Comportamenti da ordine pubblico o inaccettabili abusi di potere ed esercizio abusivo dei propri compiti?
Dall'opposizione, ma anche dall'interno dell'Unione, si levano strepiti quando si chiede il rispetto del programma e la costituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti di Genova che accerti le responsabilità politiche e della catena di comando. Dicono che non si possono processare le forze dell'ordine.
Che sciocchezza! La grande maggioranza delle forze dell'ordine, composta da persone che svolgono con dignità e onorabilità il loro difficile compito, può solo desiderare che le cosiddette "mele marce" vengano individuate e messe nella condizione di non nuocere più al buon nome di polizia, guardia di finanza, carabinieri e polizia penitenziaria. Ma se continua questa intollerabile impunità verso comportamenti che sconfinano in atti delinquenziali, come si potrà ottenere da parte della società civile quel pieno riconoscimento valoriale della delicatissima funzione svolta, che è tra i fondamenti della democrazia?
Leggo che alte autorità dello Stato dichiarano che su Genova si sa già tutto, la Commissione non serve, c'era già stato un comitato d'indagine. No, per favore. Andiamo a rileggerci le carte.
Ascoltiamo le testimonianze che le vittime della Diaz e di Bolzaneto riportano con indicibile sofferenza nei processi in corso (processi che si concluderanno, così purtroppo si commenta, con prescrizioni e nulla di fatto). Leggiamo le invenzioni scandalose dei periti, avallate da PM e GIP, sui proiettili che intercettano i sassi che volano, e guardiamo l'ingrandimento del filmato che mostra la posizione della pistola. Bastano pochi secondi, il tempo lo si può trovare facilmente, nulla in confronto al tempo della democrazia che la Commissione d'inchiesta deve salvaguardare.

Alla Diaz "macelleria messicana"

A Genova il 13.11.2008 si è concluso in modo "argentino" il processo ai poliziotti accusati di violenze e maltrattamenti nella scuola Diaz nei giorni del G8, nel luglio del 2001: colpevoli solo i picchiatori, per i mandanti (cioè la catena di comando) assoluzione.
Riportiamo la testimonianza shock resa durante il dibattimento da Michelangelo Fournier, all'epoca vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma. Fournier ha definito le scene di pestaggi cui ha assistito come "operazioni da macelleria messicana". Il dirigente di polizia ha ammesso di non aver parlato finora per spirito di corpo.

La testimonianza di Fournier
Fournier era al comando del più grosso reparto entrato alla Diaz. Dopo aver riconfermato di aver giudicato l'irruzione nella scuola: "Un'operazione di macelleria messicana", il dirigente della Ps ha fatto una importante ammissione rispondendo alle domande del pubblico ministero Enrico Zucca: "Quando sono arrivato nella scuola ho visto quattro poliziotti, due in divisa, due in borghese che al primo piano infierivano su una decina di persone a terra, non erano miei uomini".

"Non ho detto la verità per senso di appartenenza"
Immediata la richiesta del Pm Zucca che ha chiesto a Fournier come mai non avesse mai detto prima di aver assistito al pestaggio. Fournier ha risposto: "Non erano uomini miei e se non l'ho detto prima l'ho fatto per senso di appartenenza al corpo. Comunque non ho mai pronunciato la frase 'basta, basta, basta' che mi viene attribuita".

"Arrivato al primo piano dell'istituto - ha detto - ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana".

Nelle dichiarazioni invece rese precedentemente dal poliziotto ai pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini il poliziotto aveva raccontato di aver trovato a terra persone già ferite e non pestaggi ancora in atto. "Sono rimasto terrorizzato e basito - ha spiegato - quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: 'basta basta' e cacciai via i poliziotti che picchiavano".

Fournier, sollecitato dalle domande del Pm Francesco Cardona Albini ha aggiunto: "Intorno alla ragazza per terra c'erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze". Fournier ha poi raccontato di aver assistito la ragazza ferita fino all'arrivo dei soccorsi con l'aiuto di un'altra manifestante che aveva con sé una cassetta di pronto soccorso. "Ho invitato però la giovane - ha raccontato - a non muovere la ragazza ferita perché per me la ragazza stava morendo".

Giuseppe D'Avanzo

Il vuoto del diritto

Come per Bolzaneto, la sentenza del processo per i pestaggi nella scuola Diaz è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sosterranno. È soprattutto una sentenza imprudente e pericolosa. Vengono condannati soltanto i "picchiatori" del Reparto Mobile di Roma, il comandante, il suo vice, i capisquadra.

Con loro, condannati i due poliziotti che s'inventarono, trasportandole nella scuola, le due bottiglie molotov che avrebbero dovuto giustificare la "perquisizione" diventata massacro di 93 persone sorprese nel sonno. Come per Bolzaneto, questa sentenza avrebbe dovuto spiegare come, perché, con la responsabilità di chi, nasce in una democrazia un "vuoto di diritto" che liquida le regole del diritto penale e le garanzie costituzionali e consegna la nuda vita delle persone, spogliata di ogni dignità e diritto, a una violenza arbitraria, indiscriminata, assassina.

La risposta del tribunale è stata, più o meno, questa: c'è stato un gruppo di esaltati che è andato oltre il lecito, tutto qui, e due disgraziati che per metterci una pezza, a frittata fatta, hanno manipolato una prova. L'intera catena di comando, a cominciare dal capo della polizia (nel 2001, Gianni De Gennaro) si è fatta prendere la mano e ingannare come l'ultimo del più sprovveduto dei gonzi. Così il Dipartimento della pubblica sicurezza è stato convinto a stilare un comunicato in cui non c'è una frase che non risulti falsa o controversa.

È fuor di dubbio che la ricostruzione dell'accusa ne esca a pezzi. L'assoluzione dei "vertici apicali" della polizia (Giovanni Luperi e Francesco Gratteri) smentisce il lavoro dei pubblici ministeri. Avevano sostenuto che l'"operazione Diaz" fu "decisa, pianificata e organizzata dal vertice del Dipartimento della pubblica sicurezza"; che "l'iniziativa era diretta al riscatto dell'immagine delle forze di polizia gravemente compromessa dall'inefficace azione di contrasto alle violenze e degenerazioni dell'ordine pubblico durante le manifestazioni di protesta contro il vertice del G8".

Al contrario, per il tribunale non c'è stata alcuna pianificazione del Dipartimento e le violenze brutali, i fermi e gli arresti illegali sono farina del sacco di un pugno di subalterni che non sono riusciti a controllare il loro odio. L'esito minimalista del processo non spiega troppe cose (le perquisizioni arbitrarie, la costruzione di false prove, "la totale inosservanza delle regole del diritto", quella notte e nei giorni successivi) e soprattutto non "chiude" lo strappo creato tra le istituzioni e una generazione che, in quei giorni, si riaffacciava sulla scena politica dopo un lungo letargo.

Quale che siano le motivazioni della discutibile sentenza, è su questo vulnus tra lo Stato e la società che bisogna riflettere perché i pestaggi della Diaz e le torture di Bolzaneto pongono questioni che sarebbe dissennato accantonare o anche soltanto trascurare. Qual è il mestiere delle polizie in questa congiuntura politica? E quali sono le garanzie che venga svolto in modo corretto?

In uno "Stato legislativo", dove quel che conta è la legalità e chi esercita il potere agisce "in nome della legge", le burocrazie sono "neutrali", uno strumento puramente tecnico che serve orientamenti politici diversi e anche opposti, e le polizie hanno una funzione meramente amministrativa di esecuzione del diritto. Questo governo, in carica anche nel 2001, ha inaugurato la sua stagione "riformatrice" con ben altre convinzioni. Non vuole essere l'anonimo esecutore di leggi e norme. Non intende governare in nome della legge, ma in nome della "necessità concreta". Pretende che si muova dietro le "emergenze" (autentiche o artefatte, che siano), dietro le "situazioni" che ritiene prioritarie. Berlusconi s'immagina alla guida di uno "Stato governativo" che si definisce per la qualità decisiva che riconosce al comando concreto, applicabile subito, assolutamente necessario e virtualmente temporaneo, sempre conflittuale perché esclude e differenzia.

In questo scorcio di legislatura si sta creando così un paradigma istituzionale "duale" che affianca alla Costituzione una prassi di governo che vive di decreti con immediata forza di legge e trasforma il comando in un ininterrotto "caso d'eccezione" (immigrazione; sicurezza; Alitalia; rifiuti di Napoli; riforma della scuola).

Nello "stato d'eccezione", le polizie hanno un ruolo essenziale. Berlusconi evoca con regolarità un "diritto di polizia" e un uso della violenza o minaccia poliziesca quando i suoi obiettivi appaiono non condivisi o in pericolo (contro gli immigrati, contro i napoletani incivili, contro le proteste negli aeroporti, contro le manifestazioni degli studenti). Chi, nelle burocrazie, non sta al gioco, va a casa. Come è accaduto ieri al prefetto di Roma, Carlo Mosca, custode di una concezione di burocrazia professionale che, alla decisione politica (impronte per i bambini rom), oppone il rispetto della legge e della Costituzione.

Mosca è stato "licenziato" perché Berlusconi chiede - al contrario - che le burocrazie condividano la capacità di assumersi il suo stesso rischio politico, come fossero un'élite politica e non istituzionale e non neutrale. È una novità di cui bisogna tener conto. È quel che esplicitamente chiede alle polizie Francesco Cossiga con la sua "ricetta democratica".

Cossiga ha spiegato come distruggere l'Onda, il movimento degli studenti: "Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città. Dopodiché, forti del consenso popolare, le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano".

Cossiga (un uomo che sarebbe sciagurato considerare soltanto uno spericolato irresponsabile) dice quel che altri, nella destra di governo, pensano soltanto. Le polizie, nello "Stato governativo" preteso dalla destra, non dovrebbero più avere soltanto una funzione di mera esecuzione del diritto, ma farsi agenti attivi della sovranità del governo, muoversi in quell'area indifferenziata tra violenza e diritto che sempre definisce, nel caso d'eccezione, il comando del sovrano e il potere delle polizie.

Ora quel che si paventa per il domani è già accaduto ieri, a Genova, durante i giorni del G8. È accaduto proprio nelle forme augurate oggi da Cossiga. Black Bloc che distruggono la città senza alcun contrasto. Black Bloc che si allontanano indisturbati mentre appare la polizia che si avventa contro i manifestanti inermi, pacifici, a braccia alzate e, nella notte, contro i 93 ospiti della scuola Diaz che si preparano al sonno o nel garage Olimpo di Bolzaneto dove vennero ancora umiliati e torturati. Con il risultato che una generazione che, per la prima volta, scopriva la dimensione politica fu consegnata alla paura, alla solitudine, alla disillusione.

Dopo sette anni, la situazione non è diversa. Il governo è lo stesso, solo più lucido, determinato e coeso intorno alla figura del leader carismatico. Nelle strade c'è un nuovo movimento di giovani che rifiuta un progetto di ordine sociale che annuncia esclusioni e differenze, che si oppone alla caduta di ogni garanzia di eguaglianza. Che cosa faranno le burocrazie dello Stato? Che cosa faranno le polizie sospinte nello spazio stretto tra la politica e il diritto, tra la violenza e la legge? Il processo di Genova ci dice che in uno Stato che si presenta come questurino c'è chi è disponibile a un'illegalità criminale quando il dissidente diventa un "nemico" da annientare.

Sono buone ragioni per non accontentarsi di una sentenza, per non chiudere il "caso Genova" nel perimetro di un'aula giudiziaria. In un tempo di aspri conflitti sociali, già inquinati da un estremismo fascista che minaccia l'informazione, il sindacato dei lavoratori, le proteste sociali e le forme di dissenso, il Paese deve sapere se può contare su una polizia fedele alla Costituzione o dovrà fare i conti anche con una burocrazia della sicurezza gregaria di un governo che prevede il rischio assoluto, il conflitto continuo, lo "sfondamento", una polizia sottomessa a un ordine capace di riservare all'interno del Paese la stessa ostilità che si riserva a un minaccioso "nemico" esterno.

Anche ora che la sentenza di Genova circoscrive le responsabilità a pochi "fuori di testa", dalle forze dell'ordine dovrebbero giungere all'opinione pubblica limpide e inequivoche rassicurazioni. Chi ha a cuore la Costituzione, nelle istituzioni, nella società, nella politica, dovrebbe invocarle. Perché le sentenze per la Diaz e Bolzaneto più che rasserenare, inquietano. Più che medicare le ferite, le fanno ancora sanguinare.

la Repubblica, 14 novembre 2008