Palermo 8 luglio 1960

 

Natalia Marino

8 luglio 1960: Nessun processo in Sicilia per chi sparò o dette l’ordine di uccidere


Ottavio Terranova, Presidente dell’ANPI Palermo, era in piazza, quando nel capoluogo siciliano la polizia sparò sui manifestanti. Quali sono i ricordi di quell’8 luglio 1960?


Avevo 24 anni ed ero segretario della Camera del Lavoro di Augusta, incaricato da Pio La Torre, allora segretario della Cgil Sicilia. Mi avevano licenziato dai cantieri navali di Palermo, nonostante fossi un operaio specializzato, saldatore elettrico, molto bravo. L’8 luglio avevamo indetto uno sciopero e una manifestazione di protesta per i fatti e i morti di Reggio Emilia del giorno prima. E c’era stata Genova che aveva portato in primo piano la rivendicazione antifascista a cui si univa un forte desiderio di giustizia sociale. Un operaio del Sud guadagnava la metà di uno del Nord, se andava bene. Anche in Sicilia, a Licata, la polizia aveva ucciso. Nella misera cittadina dell’agrigentino, il 5 luglio aveva sparato contro dimostranti in sciopero contro la fame.

Tra le ragioni della manifestazione, la componente antifascista aveva quindi un forte peso anche a Palermo?

Fu sicuramente la principale. In Sicilia non si è combattuta la Resistenza ma il 20% dei partigiani italiani sono siciliani. La componente politica delle mobilitazioni era fortissima. Come in tutto il Paese, da Nord a Sud, si chiedevano le dimissioni del governo Tambroni con i suoi esponenti del Msi. Palermo è una città dove l’antifascismo viene da lontano, da fine 800 con i Fasci siciliani, ed è fortemente sentito ancora oggi; basti pensare che nel referendum costituzionale il No ha vinto con il 70% dei voti. Negli anni 30, le donne del popolo palermitano scioperarono contro il fascismo, un fatto che fece impazzire di rabbia Mussolini. Al momento dello sbarco alleato, i tedeschi in ritirata avevano minato il porto e i cantieri navali. La città si salvò perché dei giovani, calandosi nei tombini, riuscirono a tagliare i fili ed evitare le esplosioni. La furia nazista si scatenò, per esempio, alle falde dell’Etna. I militari del Reich irruppero nelle case dei contadini, depredarono tutto. Come poi accadde al Nord, quella povera gente si difese con le armi e per questo in decine e decine vennero fucilati.

Che città era Palermo nel 1960?

Un immenso cantiere a cielo aperto. La mafia controllava il territorio, si sparavano tra clan per aggiudicarsi aree edificabili, appalti e manodopera. Ai cantieri navali solo 2.800 erano regolari, gli altri erano assunti a tempo determinato da ditte o cooperative gestite dalla malavita organizzata. L’8 luglio con uno sciopero generale ci si mobilitò per la democrazia e per dire basta a tutto questo. Non ci aspettavamo una partecipazione così numerosa, spontanea. Nella centralissima piazza Politeama, come viene chiamata dai cittadini, c’erano soprattutto giovani delle borgate, operai metalmeccanici, netturbini, tantissimi edili. Portavano le magliette a strisce, divenute ormai simbolo della rivolta, bandiere di libertà. Ricordo Pio La Torre cominciare il comizio, riuscire a parlare appena una decina di minuti perché la folla era incontenibile e prese a sfilare in corteo. La celere presidiava la zona fin dalla mattina presto e immediatamente caricò. Poi gli agenti tirarono fuori le armi da fuoco, sparavano ad altezza d’uomo. La gente cominciò a tirar su barricate, a difendersi tirando sassi e bastoni.

I morti furono quattro…

Da qualche anno, anche in quest’ultimo anniversario, l’Anpi con la Cgil e le forze politiche democratiche commemorano i Caduti della strage di Stato con un’iniziativa dal titolo “Porta anche tu un fiore sui luoghi dell’8 luglio”. Ci rechiamo dove vennero colpiti i Caduti e alla lapide in via Maqueda che li ricorda. In via Spinuzza la polizia mirò ad Andrea Cangitano, diciannovenne operaio edile e dirigente sindacale e del partito comunista, mentre cercava di placare i manifestanti. Era una personalità conosciuta, lo ammazzarono di proposito, per punirlo. Giuseppe Malleo era un ragazzino, aveva 15 anni, morì in via Celso; Francesco Vella aveva 45 anni. Quel giorno Palermo divenne teatro di una guerra contro civili inermi: Rosa La Barbera, una signora di 53 anni, morì mentre chiudeva la finestra di casa.


La polizia però non riuscì a sciogliere la manifestazione…

Restammo nelle piazze, nelle strade e nei vicoli fino a pomeriggio inoltrato. Pio La Torre e il segretario del Pci di Palermo, Peppino Miceli, pretesero di essere ricevuti dal presidente della Regione, il barone Benedetto Majorana, esponente della Dc, monarchico con un passato nell’Uomo Qualunque, che aveva costituito un governo con l’appoggio del Msi anticipando quello Tambroni a livello nazionale. La Torre e Miceli, esigettero e ottennero da Majorana il ritiro della polizia. C’era stato un morto anche a Catania, Salvatore Novembre, un giovane disoccupato, massacrato prima dai manganelli della polizia e poi finito con un colpo di pistola. Purtroppo la repressione continuò in altro modo. Moltissimi partigiani, sindacalisti e politici erano stati feriti, identificati e arrestati durante la manifestazione. Vennero processati e condannati. Si volle processare l’antifascismo.

 Per i morti dell’8 luglio, i responsabili locali dell’ordine pubblico vennero processati?


Non ci fu alcun processo in Sicilia per chi sparò o dette l’ordine di uccidere. Peggio, la polizia continuò a reprimere con le armi. Ad Augusta, nel febbraio 61, lanciò una bomba a mano ferendo quattro sindacalisti durante uno sciopero alla Rasion. Piuttosto si provò a infangare la manifestazione di Palermo sostenendo che la mafia avesse sobillato i giovani delle borgate palermitane, mandandoli in piazza per distruggere tutto. Non è vero affatto. Fu un momento di presa di coscienza spontanea, di richiesta di libertà, democrazia e rinnovamento. Certo, la mafia contava molto anche allora, in un primo tempo nelle campagne, 56 dirigenti sindacali vennero uccisi prima e dopo Portella della Ginestra. Poi la mafia si trasferì a fare affari in città e ora si è di nuovo “modernizzata”: il business attuale è la finanza. Una volta l’arcivescovo di Palermo, il cardinale Pappalardo, mi disse che se l’acqua benedetta si fosse potuta vendere la mafia ne avrebbe dominato il mercato. Storicamente ritengo che la mafia non fosse fascista, così come nel dopoguerra il Msi non era mafioso. Però i datori di lavoro si sentivano ben protetti dal controllo mafioso. Ma allora come oggi, l’antifascismo fa paura alla mafia, alle destre xenofobe e razziste, e anche alla cattiva politica. Perché l’Anpi è la coscienza e la memoria critica della politica.