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Sergio D’Afflitto
L’arcivescovo del genocidio |
L’arcivescovo del genocidio non lascia indifferenti. E - certamente - questo libro mette in difficoltà gli apologeti del papato di Karol Wojty?a poiché è difficile contestarne i contenuti solo atteggiandosi a martiri di fronte a un supposto “sentimento anticattolico”: qui Marco Aurelio Rivelli, analogamente a quanto ha fatto per Dio è con noi, ha lasciato parlare i documenti ufficiali e ha limitato al minimo i suoi commenti. E i documenti ufficiali sono difficili da smentire.
Chiunque sia facilmente impressionabile è avvertito prima di leggere quest’opera: le eroiche imprese ivi descritte, commesse dagli ustaša croati ai danni dei serbo-ortodossi di Croazia e Bosnia, fanno impallidire quelle, pur inconcepibili, perpetrate dalle SS tedesche contro gli ebrei, ed è tutto dire.
I documenti testimoniano della costituzione dello Stato di Croazia nato a seguito dello smembramento forzato del regno di Jugoslavia nel 1941. La Croazia, Stato-fantoccio riconosciuto solamente da Italia, Germania e Giappone, teneva rapporti persino con il Vaticano che, ipocritamente, aveva un “ambasciatore” non ufficiale a Zagabria mentre intratteneva formali relazioni diplomatiche con il governo di Belgrado in esilio. Ancora più grottescamente, la Santa Sede ospitava a Roma un incaricato del governo croato con il quale evitava accuratamente di incontrarsi durante le occasioni ufficiali in Vaticano - per non creare imbarazzanti commistioni con l’ambasciatore del legittimo governo jugoslavo - ma con il quale andava d’amore e d’accordo nel corso di cerimonie organizzate da associazioni religiose sul territorio italiano, dove la Croazia era riconosciuta come entità statale indipendente.
A capo della creatura messa in piedi da Hitler e Mussolini v’era il poglavnik (duce) Ante Paveliç, fanatico cattolico, anticomunista, antiortodosso e antisemita. Il suo riferimento ideologico era l’arcivescovo Alojzije Stepinac, il più giovane vescovo d’Europa (lo divenne a 36 anni). Stepinac era la mente e Paveliç il braccio.
Il programma ideologico del governo clerico-fascista di Paveliç era sintetizzabile in pochi punti: lo Stato croato doveva essere etnicamente puro, composto solo da devoti cattolici, analogamente al Vaticano. Via, quindi, ai massacri di serbo-ortodossi (principale obiettivo degli ustaša), ebrei (non l’obiettivo principale, ma perseguitati per fare un favore al padrone tedesco), rom (sterminati benché non costituissero neppure un problema politico). La gerarchia cattolica, della quale Stepinac era primate, protesse, benedì e promosse attivamente tale politica.
Documenti e testimonianze che lo attestano sono innumerevoli. Non mancano neppure testimonianze fotografiche, pubblicate nell’opera: prelati che fanno il saluto romano, frati in uniforme, suore in parata militare, conversioni forzate di massa al cattolicesimo. Un esempio su tutti: il responsabile del lager di Jasenovac (dove fu annientata la gran parte dei serbi), il frate francescano Miroslav Filipoviç-Majstoroviç detto “Fra’ Satana”, appare nel libro fotografato sia in divisa ustascia che in abito talare.
Se le SS tedesche si erano date al metodico sterminio degli ebrei in maniera “burocratica” e più asettica possibile - per quanto si possa definire “asettica” un’atrocità come un genocidio - gli ustaša si abbandonarono a ogni sorta di nefandezze: smembramenti, squartamenti, sgozzamenti, mutilazioni, stupri delle donne serbe e amputazione delle loro mammelle, occhi umani usati come trofeo e lingue tagliate e appese alla cintura esposte come testimonianza delle loro imprese: gli stessi alleati nazisti ne furono disgustati e protestarono vibratamente presso i loro comandi perché ponessero un freno ai macellai croati. Nella zona controllata dall’esercito italiano i nostri ufficiali dovettero ordinare di passare per le armi quegli ustaša che si distinguevano per fanatismo nello sterminio dei serbi. Tanto che l’arcivescovo Stepinac si rivolse al Vaticano, sperando che questi facesse pressioni sul governo italiano affinché ordinasse al nostro esercito di non creare problemi alle attività di “conversione” (leggi: “mattanza”) nei confronti delle popolazioni serbe che, sotto l’occupazione italiana, vivevano relativamente tranquille.
Invero disturbanti le foto pubblicate all’interno del libro. Fosse comuni, cadaveri smembrati, decapitati, torturati e sfigurati. Angoscianti le immagini dei sopravvissuti al massacro e le testimonianze di chi scampò alla mattanza fingendosi morto e coprendosi del sangue dei suoi amici massacrati. A dimostrazione che, per quanto l’uomo possa impegnarsi a raggiungere il fondo della propria barbarie, c’è sempre da scavare: al termine di queste imprese, ottocentomila furono i morti, su una popolazione di poco superiore ai quattro milioni.
Quando Josip Broz, il maresciallo Tito, entrò a Zagabria ponendo fine al governo fantoccio di Paveliç, il poglavnik aveva già avuto cura di riparare prima in Austria grazie alle truppe naziste, poi, tramite il Vaticano (nei cui forzieri lasciò l’oro trafugato ai serbi), in Argentina, almeno fin quando la sua presenza non divenne troppo imbarazzante. Riparò poi a Santo Domingo, ospite del dittatore Truijllo, dove si autonominò “rappresentante in esilio dello Stato croato”. L’oro serbo ovviamente sparì e venne usato per finanziare la latitanza dei gerarchi ustaša.
È sorprendente, al proposito, che la polemica contro Pio XII per il suo collaborazionismo con il nazifascismo non consideri questa protezione, data a un uomo che aveva il macabro hobby di collezionare i bulbi oculari delle sue vittime. Un documento dell’ex sottosegretario USA Eizenstat sull’argomento conferma che «…con i tesori sottratti agli ebrei, alla fine della seconda guerra mondiale gli ustaša, i fascisti croati, finanziarono la propria fuga in America Latina, e quella di criminali di guerra nazisti come Klaus Barbie, con l’aiuto del Collegio pontificio di San Girolamo degli Illirici, a Roma» (per chi è pratico della Capitale: è il collegio annesso alla Chiesa di San Girolamo dei Croati a via Tomacelli).
Alojzije Stepinac ebbe un ruolo di primo piano nella creazione e nel consolidamento della dittatura ustaša e, successivamente, nel tentativo di evitare che la Croazia tornasse sotto il legittimo governo jugoslavo. Quello che i suoi agiografi tacciono accuratamente è che egli fu anche membro del parlamento e capo dei cappellani militari, decorato al merito con la massima onoreficenza ustascia. Un antisemita al cubo, che arrivò a dichiarare: «ho fatto notare in Vaticano che le leggi ustaša varate contro il crimine dell’aborto giustificano le leggi contro gli ebrei, i quali sono in Croazia i più grandi difensori, i più frequenti esecutori di questo crimine». Tanto coraggioso prima dell’arrivo di Tito quanto pusillanime dopo, una volta finito sotto processo per tradimento (in quanto formalmente cittadino jugoslavo che aveva cospirato contro la propria nazione): interrogato perché avesse accettato l’onoreficenza, non si vergognò di rispondere che «…se avessi rifiutato la massima onorificenza militare ustaša, sarebbero successe delle cose ancora più terribili… Noi abbiamo stabilito in modo chiaro i principî delle conversioni, gli ortodossi erano liberi e nello stato spirituale di convertirsi o meno», senza rendersi conto della plateale contraddizione: infatti, il pubblico ministero gli contestò che non era pensabile che un uomo del suo rango non potesse rifiutare un’onorificenza per timore di cose terribili, laddove, a dire dello stesso Stepinac, perfino i serbi potevano liberamente scegliere senza conseguenze se diventare ortodossi o meno. Il vile Stepinac non rispose.
Il maresciallo Tito ebbe segreti contatti con il Vaticano, cercando di ottenere da Pio XII la revoca dell’incarico arcivescovile di Stepinac e offrendosi pure di lasciarlo espatriare, per evitare un caso politico. Ma non ci fu nulla da fare. Pacelli aveva bisogno di un martire e, probabilmente, nel suo cinismo, arrivò ad augurarsi che Belgrado condannasse a morte l’arcivescovo. Cosa che non avvenne. Anzi, per essere un traditore del suo popolo, Stepinac fu trattato perfino troppo bene: qualche anno di lavori forzati, poi domicilio coatto e morte tranquilla nel suo letto, avvenuta nel 1960, quando già Pio XII lo aveva nominato cardinale da sette anni.
Sorte completamente diversa da quella del monsignore slovacco Tiso, che fu invece impiccato dalle autorità cecoslovacche dopo la fine della guerra. Il fatto che Stepinac fosse morto nel suo letto non impedì comunque agli agiografi di definirlo come martire. Un maldestro e patetico tentativo da parte di due ebrei di origine croata dalla scarsa credibilità di far inserire inserire Stepinac nel Libro dei Giusti fu rispedito indietro dalla commissione ebraica preposta a ciò.
Nel 1998, come ulteriore atto del suo discutibile e discusso papato, Karol Wojtyla beatificò Stepinac durante il suo viaggio in Croazia, divenuta indipendente nel 1991 e all’epoca governata da un Paveliç in sedicesimo, quel Franjo Tudjiman becero nazionalista e anti-serbo. La cosa non stupisce, perché è un tratto comune della Chiesa schierarsi sempre a fianco della parte peggiore ogni volta che entra in politica.
Da notare che l’autore, dopo l’uscita di questo libro, fu fatto oggetto di insulti e minacce. Motivo ulteriore per consigliarne la lettura.
Marco Aurelio Rivelli è nato a Genova nel 1935. Ha dedicato parte dei suoi studi alle vicende della Seconda Guerra Mondiale. L’opera oggetto di questa recensione non trovò, all’inizio, un editore italiano, quindi uscì in francese per L’Age d’Homme nel 1988 con il titolo di Le Génocide Occulté. Nel 1999 la Kaos lo pubblicò in italiano. Sempre per la Kaos è «Dio è con noi!». La Chiesa di Pio XII complice del nazifascismo (2002) la cui recensione è presente in questa sezione.
Circolo UAAR di Roma
2 gennaio 2005
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