Gigi Bettoli

Ovaro per non dimenticare. Con un pizzico di revisionismo storico, che non guasta


È positivo che l’amministrazione comunale di Ovaro si occupi di ricordare una delle ultime stragi naziste in Italia: quella avvenuta nel paese carnico il 2 maggio 1945.

Siamo in un paese dove la conoscenza storica è al livello delle favole omogeneizzate buono vince/cattivo inevitabilmente perde in stile disneyano, e c’è pure chi lavora ai “piani alti” della cultura pensando che la seconda guerra mondiale, da noi, sia finita esattamente il 25 aprile: per cui ben venga tutto quello che contribuisce a spiegare, ricordare, informare.

Soprattutto se la memoria storica riesce ad uscire dalla stanca ripetizione di celebrazioni e commemorazioni, che hanno pure esse contribuito ad allontanare le persone da qualcosa che appare una stanca ripetizione rituale, privata di ogni senso comune attuale. Celebrare la Liberazione e la Democrazia in forma spesso militaristica, mentre vengono stravolti la Costituzione repubblicana ed il Welfare State postbellico, appare sempre più assurdo: come cantava Claudio Lolli, siamo stanchi di ritrovarci solamente a dei funerali. A questo proposito, ha scritto recentemente cose condivisibilissime Valerio Romitelli, intitolando il suo ultimo libro non a caso “La felicità dei  partigiani e la nostra” (Napoli, Cronopio, 2015, 180 pp.).

È quindi comprensibile che il Comune di Ovaro abbia scelto di parlare della strage (cosacca) del 2 maggio 1945 con una mostra su quel contingente di soldati ex sovietici - cosacchi ma anche caucasici - che i nazifascisti avevano portato in Alto Friuli nel 1944, per reprimere la repubblica partigiana della Carnia Libera. Ottenendone in cambio una zona di insediamento in alternativa a quelle loro lontane terre natali che, dopo le definitive vittorie dell’Armata Rossa a Stalingrado ed a Kursk, sapevano non avrebbero mai più rivisto. Sapevano che non ci sarebbe stata pietà per loro, come per tutti i “traditori della patria”. Anche se molti di loro in realtà in Carnia disertarono, e passarono nelle file dei reparti partigiani, anche grazie alla propaganda dei loro connazionali che avevano fatto una scelta diversa, costituendo il battaglione garibaldino “Stalin”.

E qui potremmo aprire le cateratte dell’inferno di una riflessione sui cambi di significato delle parole e dei simboli nel fluire storico. Dal nome di quel dittatore diventato per mezzo mondo una bandiera di liberazione (ma in Cansiglio l’altro battaglione di partigiani, il “Kirov”, era intitolato ad una sua probabile vittima, e chissà quanto questo abbia potuto influire sulla scelta), ai cosacchi traditori e sanguinari, diventati ai nostri giorni un simbolo di “libertà” per la memoria antipartigiana.

Indubbiamente nell’iniziativa del Comune di Ovaro c’è ampia traccia di questa memoria antipartigiana, diventata, da Craxi a Berlusconi (e da Fini a Violante), la bandiera di una nuova ideologia neoliberale e postfascista, che ha rotto quel legame con l’antifascismo storico che era stato la cifra sia del Pli di Benedetto Croce, della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, del Pri di Ugo La Malfa e del Psdi di Giuseppe Saragat (in tutti questi casi unito ad un non meno feroce anticomunismo); che del Psi di Pietro Nenni, Sandro Pertini e della maggioranza dei partigiani di “Giustizia e Libertà”, come Riccardo Lombardi, Vittorio Foa ed il friulano Fermo Solari.

Basta leggere in seguenza due espressioni della lettera della sindaca Mara Beorchia, quando accenna al “far luce su fatti che ancor oggi risultano controversi“, per poi promettere ai primi visitatori copia di un libro di memorie antipartigiane di Antonio Topan del 1948 (a proposito del quale consigliamo la lettura della recensione di Laura e Marco Puppini).

Nella locandina dell’evento, poi, si presenta tra gli altri un libro dove si parla di “guerra civile“, termine di per sé non scorretto (è stato certamente uno degli elementi della lotta tra partigiani e nazifascisti), se non fosse che è l’irritante definizione unilaterale assunta dai neofascisti per indicare quell’evento nel quale, dopo aver agito in modo sanguinario al servizio dell’occupante nazista - che, en passant, aveva annesso il territorio di Sud Tirolo, Trentino, Bellunese, Friuli, Trieste, Istria e Fiume al Terzo Reich - furono clamorosamente sconfitti.

Il passo prosegue in forma ambivalente: si ricorda l’annessione alla Germania nazista ed il collaborazionismo dei fascisti della Rsi, e si parla - è uno dei pochi luoghi in generale dove vi si accenni correttamente -  della tripartizione della Resistenza in Friuli, tra “Garibaldi” comunista ed internazionalista, “Osoppo” con tutti gli altri partiti italiani di orientamento nazionalista e resistenza slovena dell’OF (Fronte di Liberazione, dove con i comunisti collaboravano nazionalisti cattolici e liberali). Ma si fa anche confusione scrivendo di “spinta del IX Corpus di Tito” (che in realtà era la formazione militare slovena, appartenente come tutto l’esercito di liberazione jugoslavo alla coalizione delle Nazioni Unite, dalla quale l’Italia di Badoglio e Vittorio Emanuele III era esclusa per la sua passata alleanza con i nazisti) e contrapponendovi la “resistenza delle truppe del Rgt Tagliamento Rsi“, dando una dignità “resistenziale” (evidentemente in senso nazionalistico, non certo antifascista) ai collaborazionisti fascisti italiani, per altro opportunisticamente e provvidenzialmente confluiti nell’Osoppo all’ultimo momento, dopo aver combattuto contro i partigiani sloveni.

Che dire, insomma? Non volendo giudicare negativamente l’iniziativa, all’interno della quale sono state realizzate anche conferenze, con la partecipazione di relatori apprezzati come il prof. Floramo (uno studioso che è anche tra degli organizzatori delle annuali celebrazioni del 9 maggio a Clauzetto, in onore del comandante partigiano sovietico “Daniel”) non possiamo che concludere che grande è la confusione sotto il cielo. Un maggior rigore non stonerebbe pro futuro: “meglio meno ma meglio”, diceva il Lenin.

grazie a: http://www.storiastoriepn.it/ 31.12.2015

 

Laura Matelda e Marco Puppini

Su quel dissacrare la Resistenza che ha radici lontane...

Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Resistenza è stata oggetto di una serie di attacchi, dapprima subdoli poi sempre più diretti, portati non solo in forma di persecuzione giudiziaria, ma anche di libri e libretti che intendevano delegittimarla.

In seguito questi testi, ricchi di insinuazioni e di “sentito dire”, sono diventati voci di verità cui fare acriticamente riferimento. Anche in Carnia questo è successo, in primo luogo, con il libro del maestro Antonio Toppan, dai trascorsi socialisti e cooperativi, : “Fatti e misfatti in Carnia durante l’ occupazione tedesca - narrazione obiettiva, Val Degano, 25 luglio 1943 - 5 maggio 1945”, Tip. V.I.T.A., 15 novembre 1948, pubblicato all’indomani della vittoria elettorale della Democrazia Cristiana, che ha fornito lo spunto, in seguito, per una lettura degli eventi resistenziali carnici ferocemente contraria alle formazioni partigiane ed alla Resistenza.

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Non è un caso che testi antipartigiani siano stati scritti e divulgati in quel periodo: infatti, in piena guerra fredda, il Vaticano e la DC agitavano lo spettro incombente di una “minaccia comunista”.
La campagna contro il PCI e i suoi legami con l’URSS fu elemento costante della propaganda democristiana e della destra. Gli americani dichiaravano che gli aiuti sarebbero stati sospesi se in Italia fosse prevalsa la sinistra. E il 1948 segnava anche l’inizio delle prime attività delle risorgenti organizzazioni fasciste; Palmiro Togliatti fu fatto segno di un attentato che lo lasciò gravemente ferito; il Fronte Popolare denunciava sia le interferenze americane e vaticane nella politica italiana, sia l’attività dei comitati civici e del gesuita padre Lombardi, detto il “microfono di Dio”, i cui comizi erano ispirati ad un anticomunismo dai toni apocalittici. 
Questo periodo fu anche caratterizzato dalla discriminazione dei comunisti nelle fabbriche e negli enti pubblici e dalla caccia ai “fazzoletti rossi” partigiani: tanto per fare un esempio, furono arruolati nella polizia oltre ventimila nuovi agenti ma furono esclusi tutti coloro che, da garibaldini, avevano aderito alla Resistenza. (“Dalla Resistenza a Berlinguer”, in: http://www.anpibresso.altervista.org/).

La visione acritica di attacco alla Resistenza, portata avanti privandola di valore e riempiendola di arbitrari significati negativi, trova ancora, in Carnia, nella destra ma anche nell’area cattolica molti seguaci, basti vedere il testo di Igino Piutti “L’assedio della Carnia 1943- 45/ Riflessioni”, giunto alla quinta edizione con Aviani& Aviani, 2014, (per numero edizioni cfr. www.cjargne.it/libri/AssedioCarnia.htm) che molto deve a Toppan; alcune riflessioni dell’ovarese Alberto Soravito, in Alberto Soravito “ Matricola 34751 Olivo Soravito ( 1923 - 2013) Andrea Moro ed. 2012; e il testo di Gianni Conedera, L’ultima verità, ed. Andrea Moro, 2006, per citare alcuni esempi. Per quanto riguarda il titolo del volume di Igino Piutti, “L’assedio della Carnia”, esso non è per nulla originale ma è mutuato da: Michele Gortani, “Il Martirio della Carnia, dal 14 marzo 1944 al 6 maggio 1945”, come si può leggere nella terza edizione del volume, del 2000, a p. 32, ove si parla di assedio alla Carnia, in riferimento all’avanzata cosacca.

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Il libro di Toppan si presenta in forma di considerazioni e ricordi, a cui l’autore dà valore di testimonianza comune, affermando che: «questi fatti sono di dominio pubblico in Carnia», (Antonio Toppan, op. cit. p. 19) pur essendo frutto di una visione personale.
Leggendo il volume ci si accorge che è privo di fonti, di riscontri, di documentazione, e che l’unico riferimento è il racconto del maestro, cui il lettore dovrebbe dare la massima fiducia. I fatti narrati, inoltre, mancano di una precisa e puntuale contestualizzazione.

Ma a ben guardare, «Fatti e misfatti …» non è neppure un testo che riporti solo riflessioni e considerazioni del tutto personali, perché certi veleni contro i partigiani e certe espressioni tendenziose consentono a nostro parere di collocarlo in compagnìa di una fiorente letteratura antipartigiana sorta dopo la fine della seconda guerra mondiale, a riprova che la libertà conquistata allora, dalla resistenza, fu libertà di cui tutti godettero.

Il maestro ovarese, fin dalle prime pagine, comunque, si affretta a precisare di non essere fascista, anzi, di aver subito dai fascisti un torto, perché non gli hanno permesso di diventare professore, pur avendone titolo (Ivi, pp. 14-15); ma si deve ricordare che, durante il fascismo, gli oppositori avevano sofferto il carcere, il confino, bastonature, rappresaglie economiche, olio di ricino, umiliazioni di ogni sorta, la fame, la morte, come accadde, per fare solo un paio di esempi, a don Giovanni Minzoni, o nel 1936, a Lojze Bratuž, che aveva osato far cantare, durante la messa, ai cori da lui diretti, canzoni in sloveno. (https://it.wikipedia.org/wiki/Lojze_Bratuž).

Inoltre Antonio Toppan occupa molte pagine per rivendicare l’italianità ed il patriottismo dei carnici, scrivendo, nelle considerazioni finali, come «la cruenta lotta di Italiani contro Italiani […] sia stata la piaga che maggiormente ha afflitto la Terra Natale» (Ivi, p. 125). 
Le conseguenze della guerra, voluta dal fascismo, sono appena sfiorate, paiono poco importanti, eppure, fino all’8 settembre 1943, la guerra a fianco degli alleati nazisti aveva provocato lutti e tragedie. Sui 1.300 caduti totali in Carnia, dall’inizio della seconda guerra mondiale sino ad oltre maggio 1945, il 61% (794) era formato da militari caduti prima o in conseguenza dell’8 settembre, la massima parte durante la campagna di Russia o sul fronte greco - albanese, e 62 militari carnici, deportati dopo l’8 settembre, erano morti nei campi di internamento tedeschi. (Dati dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione). Di tutto questo in «Fatti e misfatti…» non c’è, praticamente, traccia.

Antonio Toppan scrive poi, in poche righe, cosa accadde all’Italia ed al Regio Esercito Italiano a causa dell’8 settembre 1943 (Ivi, p. 16), che fu una vera tragedia per ambedue, sottolineando che l’esercito si era sfasciato, ma non precisandone il motivo; che i tedeschi dettero la caccia agli sbandati, (ma non precisando in un quadro di guerra al R.E.I.); che molti soldati raggiunsero le famiglie, ma non si sa poi che fecero; che magazzini, depositi, sussistenze militari furono, ovunque, assaliti e saccheggiati, non si sa da chi, e non precisando che la popolazione era stremata dalla guerra e dalla fame; e termina scrivendo che, alla fine, l’Italia, a suo dire, «si trovò, come tante altre volte nella sua storia millenaria, in braccio alle fazioni» (Ivi, p. 22), quasi si trattasse di “opposti estremismi”, non della seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista e poi anche cosacca. Per quanto riguarda i saccheggi nelle caserme, post 8 settembre, pare che fossero implicati anche carabinieri, visto quanto scrive Nuto Revelli a proposito di un ex maresciallo di detta arma, che era:«uno dei tanti ladri che hanno sottratto nelle caserme all’8 settembre un ingente quantitativo di scarpe, di coperte, di vestiario militare». (Nuto Revelli, Le due guerre, Einaudi 2003, prima ed., p. 139). 

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Pare che ad Antonio Toppan interessi scrivere di quanto accade, in zona, dopo l’armistizio, quasi che tutte le disgrazie iniziassero da lì, o meglio dal sorgere del movimento partigiano.
Egli racconta che si erano formati i Circoli Repubblicani e, in odio a questi, le formazioni partigiane. Sembra si parli di supporter di calcio. In realtà i Circoli repubblicani si battevano per continuare la guerra a fianco dei tedeschi, perché i giovani si arruolassero nelle loro formazioni militari, per combattere sino alla vittoria finale del nazismo. Il bando iniziale di reclutamento nelle forze fasciste era stato sospeso dai tedeschi: nel Litorale Adriatico dovevano essere loro ad organizzare i reclutamenti. Essi emanarono un primo bando il 29 novembre 1943, che decretava l’obbligo generale di servizio militare, nella Wermacht, SS, formazioni RSI, Landschutz o come lavoratori nella Todt. Il 22 febbraio 1944 vi fu una nuova chiamata per le classi dal 1923 al 1926 (dai diciotto ai ventuno anni). Infine un’altra ordinanza del Gaulaiter Rainer, datata 25 luglio 1944, sanciva l’obbligo dell’arruolamento per tutte le classi dal 1914 al 1926.

Francamente non si capisce la tranquillità agreste che Toppan riferisce. Le notizie sulla presenza di partigiani, in loco, secondo lui, parevano inverosimili, dato che a suo dire, «la vita locale si svolgeva con ritmo normale, quieta, pacifica, senza avvenimenti degni di nota, se non forse l’apparizione rara e saltuaria di qualche auto-veicolo tedesco isolato» (Ivi, p. 23).
Non si può negare che ciò possa esser accaduto nei pressi della casa di Toppan, a Baûs di Ovaro, ma il maestro dimentica l’occupazione tedesca anche della Carnia, posta, da allora, in territorio di Zona d’Operazioni del Litorale adriatico o OZAK (acronimo di Operationszone Adriatisches Küstenland); che la seconda guerra mondiale non era terminata; che l’R.S.I. rastrellava i paesi a cercare i disertori del R.E.I. ed i renitenti alla leva. 
Inoltre pare dimenticarsi che i repubblichini, impegnati nel reclutamento, non erano boy scout. Giobatta Candotti, di Ampezzo, era stato ucciso nel marzo del 1944, quando di partigiani, in Carnia, si parlava ancora molto poco o nulla, perché era scappato di fronte ad una pattuglia di fascisti che cercavano chi non aveva risposto alla chiamata per la leva. Ottavio Villa era stato arrestato, nel maggio 1944, dalla Milizia Confinaria perché aveva diffuso copie del proclama di Concetto Marchesi, e lungamente bastonato alle piante dei piedi con righe di ferro,  nella caserma della guardia confinaria a Tolmezzo, (Intervista ad Ottavio Villa di Laura Matelda Puppini, novembre 2011) e gli esempi potrebbero continuare. 
Non è un mistero che proprio quei bandi di arruolamento avessero spinto molti giovani, che non volevano collaborare con i tedeschi, nelle file partigiane.

Invece, secondo Antonio Toppan, le file partigiane si ingrossarono di giovani,  «spinti […] dal desiderio […] di avventura, di forti emozioni, di novità, […]; ed anche nella persuasione di diventare personaggi autorevoli, mentre portavano tanto di fucile sulla spalla, e con esso chiedevano, come i «grandi», ai pacifici cittadini e alle donnicciole la carta di identità agli incroci delle strade». E sempre secondo il maestro ovarese: «La maggior parte di questi elementi giovanili era fuggita di notte tempo, all’insaputa dei genitori e dei parenti»  (Antonio Toppan, op. cit., p. 23), in sintesi erano ragazzini scappati di casa alla ricerca di forti emozioni e di un po’ di visibilità. 
Molti dei più anziani, sempre secondo Toppan, si erano invece dati alla macchia ed uniti al movimento partigiano «per ragioni di appetito e per approvvigionare le loro famiglie». (Ivi).

Questa è per Toppan la motivazione per cui moltissimi salirono sui monti e soffrirono fame, torture, morte, stenti: perché erano giovani, teste calde, ragazzini scappati di casa, o vecchi avidi, almeno così par di capire! 
Nella realtà molti partigiani carnici avevano poco più di vent’anni, ma erano spesso giovani che erano già stati mandati, dal re e dal governo fascista, a combattere in Russia, Grecia, Jugoslavia ed altrove; erano giovani che avevano già sparato, ucciso e visto cose terribili, che avevano già conosciuto l’arroganza e l’opportunismo degli “alleati” tedeschi e dei gerarchi fascisti, e che ora venivano spinti ad arruolarsi nelle forze armate nazifasciste, quelle stesse forze che affamavano, con le loro requisizioni, le famiglie. In altri casi i partigiani erano uomini maturi, socialisti, anarchici, antifascisti, che avevano subito persecuzioni ed esilio a causa del loro credo politico.

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Dopo aver così denigrato, insultato, delegittimato tutta la Resistenza, sembrano quasi ridicole le parole con le quali Toppan elogia i veri patrioti che, par di capire, si contavano sulle dita di una mano, paragonandoli a coloro che chiama combattenti per un ideale di patria, cioè ai repubblichini, che invece operavano con i nazisti. Toppan sottolinea come vi fosse, anche in Carnia, chi parteggiava decisamente per l’R.S.I., a suo dire per vari motivi, non ultimo perché era viva in molti di loro «la fede che combattere a fianco dell’alleato di ieri era la via indicata dall’onore nazionale.» (Ivi, p. 21). Come faccia a scrivere questo Toppan, è davvero un mistero, perché l’R.S.I. collaborava con i nazisti occupanti il suolo patrio e fascisti furono spesso coloro che aiutarono i nazisti nelle cosiddette rappresaglie contro la popolazione civile: si veda, per esempio, l’immagine pubblicata in: A.N.P.I., 1943-1945, Immagini della resistenza friulana, vol. 1, Aviani & Aviani ed., 2010, p. 51, ove si vedono militari R.S.I. in rastrellamento assieme alle S.S. in zona Bordano Anduins, o quella pubblicata a p. 60, ove si mostrano le vittime dell’incendio di Torlano, perpetrato da nazisti e fascisti dell’ R.S.I.. Ma anche alla strage di Pramosio e della val But parteciparono tedeschi e repubblichini (per esempio il capitano Ocelli).

Il ruolo dei repubblichini (allora detti repubblicani) viene così descritto da Nuto Revelli, ufficiale effettivo del R.E.I., reduce di Russia, partigiano di Giustizia e Libertà: «Non sono i fascisti che ci preoccupano. I fascisti - lo grido ben forte perché li ho visti con i miei occhi - non sono dei combattenti. I fascisti li temiamo e li odiamo, sottolineo “li odiamo” perché arrivano sempre dopo le operazioni di guerra, arrivano sempre dopo i rastrellamenti, al seguito dei tedeschi. I fascisti sono feroci nelle rappresaglie contro la popolazione, contro gli inermi». (Nuto Revelli, op.cit., p.147). E le testimonianze narrano che friulani dell’R.S.I. avevano preso parte all’incendio di Forni di Sotto. «E che fra i collaborazionisti presenti a Forni durante l’incendio ci fossero anche fascisti friulani, lo confermò il 9 febbraio 1948 un certo Giobatta Placido Siega da San Martino di Codroipo, che fu interrogato a Forni stesso e salvato dal linciaggio popolare solo per l’intervento dei Carabinieri. Lo confermano altre testimonianze: oltre il fatto che la gente li abbia sentiti parlare in friulano […].» (Erminio Polo, Forni di Sotto. Un paese segnato dal fuoco, ed. Grillo e Centro cultura, 1984, p. 121).
Non si sa quindi come i fascisti e qualche sparuto partigiano (non ben identificato) risultassero, agli occhi del maestro, ugualmente onorevoli, mentre i restanti partigiani pare fossero persone che fracassavano, rompevano, distruggevano, uccidevano padri di famiglia e «commettevano atti indegni di un popolo civile, atti che avrebbero fatto arrossire i vandali stessi!»  (Antonio Toppan, op. cit., p. 25): giudizi dati senza prova alcuna, ma che egli si affretta a precisare più volte essere la verità. Inoltre non si sa proprio su che base Toppan possa affermare che ai partigiani non mancarono mai generi alimentari e che degli stessi spesso facevano sperpero! (Ivi).

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Non stupisce, in quest’ottica, l’elogio finale di Toppan alla X Mas sotto processo, utilizzando le parole di Piero Operti, (Ivi, p. 126). Operti era stato volontario nella prima guerra mondiale, da cui era uscito mutilato, quindi si era impiegato come docente di storia, sposando il pensiero liberal crociano. Il Cln gli affidò, in un primo tempo, il comando militare delle formazioni partigiane; ma, in seguito, «apparve chiaro che Operti intendeva condurre una lotta su due fronti, sia contro i nazifascisti sia contro i comunisti; nel gennaio 1944 venne destituito e messo sotto accusa a causa delle sue posizioni attendiste nonché per aver trattato accordi di non belligeranza con i nazifascisti.» (https://it.wikipedia.org/wiki/Piero_Operti).
Inoltre Piero Operti scrisse, nel maggio 1955, una lettera a Valerio Junio Borghese, direi di stima. (Il testo della lettera è pubblicato in: http://www.decima-mas.net/apps/index.php?pid=37, che rimanda a wikipedia cit., nota7).

Secondo Operti, sposato da Toppan, pare che compito della  X.a  fosse stato la difesa di  Trieste e del confine orientale. (Ivi, p. 126). Qui il maestro risente, certamente, della propaganda anticomunista, e contro “il pericolo slavo” del dopoguerra, portata a pretesto per formare bande armate in Friuli Venezia Giulia, e finanziare gruppi a cui appartenevano anche fascisti. (Cfr. in proposito: Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Einaudi, 2014).

Inoltre pare davvero difficile far passare per difensori dell’italianità uomini che combattevano a fianco dei nazisti, che avevano sottratto al controllo della Repubblica Sociale Italiana le terre poste nelle province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, per formare la Zona d’operazioni del Litorale adriatico, sottoposta alla diretta amministrazione militare tedesca.
Ma anche ammesso che la X.a avesse avuto il compito di difendere la Venezia Giulia, aveva espletato ben male detto compito, perché le stesse autorità della RSI scrivevano, in via riservata, al duce che: «L’arrivo della Divisione X.a nella Venezia Giulia ha sollevato il morale delle popolazioni italiane […]. Però il comportamento poco corretto ed indelicato di molti elementi della X.a ha scosso un po’ la fiducia che la gente italiana aveva risposto in questa Divisione […].» (In: ACS - Segreteria Particolare del duce / SPD - Carteggio Riservato / CR - RSI - b.29).

Toppan, sempre citando le parole di Operti, si dimostra preoccupatissimo per la sorte della X.a Mas e del suo comandante, il principe Borghese, nei giorni in cui si apriva il processo per le loro responsabilità durante la seconda guerra mondiale (pp. 126 - 127). Toppan e Operti evidentemente vedono un film che non è reale, il film della persecuzione intransigente dei fascisti. Non è stato così: Togliatti (il segretario del PCI che allora era anche Ministro della Giustizia) aveva già emanato l’amnistia per i delitti commessi dai fascisti, amnistia che fece uscire di prigione tante persone che forse meritavano di restarci. Dopo il processo alla X.a, tanto temuto da Toppan e Operti, Junio Valerio Borghese fu scarcerato. Ventidue anni dopo verrà imputato per avere partecipato ad un tentato colpo di stato, nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970, contro la Repubblica italiana nata dalla Resistenza. (Per J. V. Borghese, cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Junio_Valerio_Borghese).

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E pare che, per Toppan, i partigiani non fossero solo teste calde, ma anche ladri! 
«In alcune località della Carnia i partigiani requisivano i vitelli ancora prima della loro nascita. A tal uopo si facevano consegnare dalle stazioni di monta i nominativi dei proprietari delle bovine e la data di fecondazione di esse, e poco prima dell’epoca del parto si presentavano dal proprietario stesso a mettere il fermo sul futuro nascituro, naturalmente a scopo culinario. I rifiuti e le proteste erano inutili e pericolose». (Antonio Toppan, op. cit., p. 24). Ma forse la mancanza di vitelli era stato un problema dei fascisti, perché ne parlò anche il Federale del Fascio, giunto ad Ovaro il 25 luglio 1943. (Ivi, p. 12). 
Comunque, per quanto riguarda i partigiani, c’è da chiedersi su quali fonti Toppan scriva queste righe, e se non si scambino i partigiani con i tedeschi. Infatti, con l’occupazione, erano iniziati i sequestri di generi alimentari e di altro tipo da parte dei tedeschi tramite i famigerati ammassi, organizzati per rifornire le forze armate naziste, ben prima delle requisizioni operate dai cosacchi, che Toppan lamenta lungamente nelle pagine successive. I partigiani spesso intervenivano facendo fallire gli ammassi e ridistribuendo i generi alla popolazione, pagando o fornendo buoni per quanto loro requisivano. Una parte di questi buoni, dato che un certo numero degli stessi andò perduto da coloro che li possedevano, venne rimborsata, nel dopoguerra, anche a persone di Ovaro. (Scheda fondo - Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Archivio di Stato di Udine. - Danni di guerra - partigiani - 1945-1978, Fondo 25 bb., Intendenza di Finanza di Udine).

Abitando nella valle, inoltre, riteniamo che Toppan non potesse ignorare alcuni fatti. Il 19 aprile 1944, per esempio, a Rigolato i partigiani avevano prelevato burro già requisito in precedenza dai tedeschi e lo avevano distribuito alla popolazione (ACS -PS AAGGRR-A/R - b.12). Ed ancora: il 21 aprile 1944, a Voltois di Ampezzo, i partigiani avevano sì imposto la macellazione a loro favore di una mucca anch’essa destinata sempre all’ammasso, ma avevano poi fatto vendere la carne al pubblico (Ivi). 
A Forni di Sotto, il 2 maggio, 15 partigiani erano entrati nella latteria sociale, si erano fatti consegnare burro e formaggio destinati all’ammasso, e li avevano distribuiti agli abitanti sprovvisti di animali, e quindi di sostentamento. (Erminio Polo, op. cit., p.99). Inoltre i partigiani tendevano ad impedire che le bestie della popolazione venissero condotte all’ammasso obbligatorio, per contribuire all’alimentazione delle truppe naziste, come accadde in periodo pasquale, nel 1944, a Forni di Sotto. (Ivi, p. 100). Infatti le vacche erano fondamentali, per le famiglie locali, per sopravvivere. 
E, per fare un altro esempio, il 15 settembre 1944, i Tedeschi avevano chiesto alla popolazione di Casanova di consegnare il latte, una delle poche fonti di sostentamento per vecchi, ammalati e bambini, ma essa si era rifiutata di farlo, dicendo che il latte serviva a lei. Fu così che, per rappresaglia, i Tedeschi attaccarono il paese alle sette del mattino, con mortai e mitragliatrici. (Lucia Cella, “Mira” sui monti la libertà, a cura di Ferruccio Tassin, ed. Circolo Ricreativo Sportivo Filodrammatica, di Versa, 2014 ,p .44). 
Ed ai tempi delle Zone Libere, la nuova situazione creatasi, mise a nudo i problemi più pressanti da risolvere, uno dei quali era quello di come alimentare la popolazione, mancando cibo anche a causa degli ammassi e dei blocchi tedeschi. A detto problema i Cln ed i partigiani risposero con la lotta al mercato nero ed al contrabbando, con la ricerca di calmierare i prezzi e con le requisizioni di generi alimentari. (Laura Matelda Puppini, Zone Libere, Repubbliche partigiane ed assetto istituzionale, in: Patria Indipendente, numero speciale per il 70° Liberazione, Semi di Costituzione. La bella storia delle repubbliche partigiane, settembre 2014, p. 29).

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Antonio Toppan ricorda, pure, la presenza di falsi partigiani che procedevano a requisizioni senza molto criterio. Ma questi erano considerati dai partigiani stessi nemici del movimento resistenziale, e se individuati e ritenuti colpevoli, passati per le armi. Don Aldo Moretti e Carlo Dominissini ricordano che vi furono rapinatori che si spacciavano per partigiani e che usavano, tra l’altro, timbri falsi, per requisire beni e materiali. Quattro di questi erano stati fucilati al cotonificio udinese il 15 novembre 1944. (A. Moretti, C. Dominissini, Una pagina di storia trasmessaci dai buoni usati nella Resistenza in Friuli, in S. C. in F. N. 7, p. 277, nota 7). 
Ma anche Nuto Revelli ricorda, nel suo libro, falsi partigiani che erano nella realtà ladri. «Delinquenti comuni ed ex - soldati sbandati si travestono da partigiani e rubano, terrorizzano nelle campagne. Abbiamo paura di questi banditi: tanti ne pescheremo, tanti ne fucileremo». (Nuto Revelli, op.cit., p. 138).

Inoltre poteva accadere che aderenti al movimento partigiano fossero passati, poi, al servizio dei tedeschi - per amore o per forza - assumendo il ruolo di informatori ed operando furti, per proprio tornaconto ma anche per screditare il movimento partigiano, e che partigiani operassero requisizioni non autorizzate dai comandi. 
Lo stesso Antonio Toppan riconosce che «spesse volte tali falsi partigiani, o meglio loschi elementi, si presentavano anche isolatamente nelle famiglie e si facevano consegnare, malgrado le proteste, a nome dei loro comandanti del tutto ignari, biancheria, danaro, formaggio, condimenti, salsicce ecc. che trafugavano poi per loro conto. Scoperto il gioco, constatata la realtà dei fatti, trovato nei vari luoghi il mal tolto, tal individui, dai partigiani stessi, previa informazione al pubblico con avvisi murali, furono passati per le armi». (Antonio Toppan, op. cit., p. 28).

Ed il comandante Carlo Bellina, Augusto, della Garibaldi, ricorda che era stata chiesta la sua presenza in zona Dordolla, perché un partigiano osovano, facendosi passare per parente dei Brunetti di Pramosio, prelevava, in nome di questi, denaro e bestiame. (Testimonianza di Carlo Bellina, Augusto, in: Archivio I.f.s.m.l., Udine. Fondo testimonianze, Busta 1 Fascicolo 7. Divisione Garibaldi Carnia).

Certamente andrebbe maggiormente vagliato quanto le dichiarazioni e l’azione di coloro che erano stati partigiani, e quindi si erano allontanati dal movimento resistenziale od erano passati al servizio dei fascisti, abbia contribuito a diffondere memorie “tossiche” e false sul movimento partigiano in Carnia.

D’altro canto, l’accusa che i partigiani, non potendo catturare i gerarchi fascisti, perseguitassero i loro familiari, procedendo, pure, a sequestri di ogni genere, è un singolare rovesciamento di giudizio sulla realtà, dove erano proprio i fascisti ed i tedeschi a procedere a requisizioni in massa ed a perseguitare i familiari dei partigiani. (Cfr., per esempio, le angherie subite dalla famiglia Venier, in: Venier Albino, Luigi, Teresina, Una famiglia unita nel turbine della guerra, Aviani&Aviani ed., 2013, pp. 152-154,  quanto riportato da Michele Gortani relativamente ai saccheggi cosacchi, in Il Martirio della Carnia, op. cit., pp. 43-83, la fine fatta fare al fratello dell’osovano Lupo, in: Romano Marchetti, (a cura di Laura Matelda Puppini) Da Maiaso al Golico, dalle Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel ‘900 italiano, ed. Ifsml, Kappa Vu, 2013, scheda Giovanni De Mattia, p. 389).

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Alle azioni partigiane corrispondevano rappresaglie tedesche, e Toppan descrive quella avvenuta l’8 maggio 1944 a Prato Carnico, di cui si sa che fu condotta dal Gruppo di Combattimento del capitano della Flak Prentl, di stanza a Spilimbergo, guidato da “fidati collaboratori” della Federazione Fascista di Udine, che arrestano come ostaggi “noti elementi antifascisti, sovvenzionatori dei partigiani” individuati forse grazie a spie locali. (ACS - SPD - CR - RSI - b. 29). Ma erroneamente Toppan pone, nel corso di quell’evento, la cattura di Vero Fabian, figlio dell’esponente comunista Osvaldo Fabian, e di Giacomo Solari e la loro deportazione, ritenendo che fossero ritornati a casa nel dicembre dello stesso anno. (Antonio Toppan, op. cit., p. 36). Infatti non solo essi morirono in campo di concentramento ma furono catturati quando avvenne l’incendio di casa Fabian, il 14 dicembre 1944.

Per quanto riguarda l’azione che portò, il 16 giugno 1944, alla morte di alcuni “gendarmi tedeschi”, non si hanno altre fonti. Forse Antonio Toppan confonde con altra azione di guerra che portò, nel periodo dell’invasione cosacca, alla cattura di un centinaio di alto atesini a Sappada, poi consegnati ai tedeschi. Così narra Michele Gortani:«Il 24 settembre (1944 n.d.r.) il presidio germanico di Sappada, forte di 108 uomini, si arrende ai partigiani che il 9 ottobre lo consegnano in ottime condizioni, al Comando tedesco.» (Michele Gortani, op.cit., pp. 35-36). 
Anche Romano Marchetti ricorda che, ai tempi dell’invasione cosacca, mentre era con Tredici, che allora comandava le brigate unificate, venne raggiunto da un garibaldino che diceva di avere un gruppo di altoatesini presi prigionieri a Sappada, di cui nessuno sapeva che farsene, ma che non furono uccisi.

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Infine, tanto per sparger ancora zizzania, Toppan, per primo, insinua pubblicamente, con una osservazione volutamente vaga e tendenziosa, che Aulo Magrini sarebbe stato ucciso da altri partigiani. (Antonio Toppan, op. cit. p. 49). 
«La morte di questo professionista […] - scrive - avvenne per colpo di arma da fuoco […] ma da quale lato partì il colpo non è stato ben chiarito. Si danno varie versioni e la voce circola con insistenza che egli sia stato bersaglio occasionale se non premeditato».

Voci da osteria, come nel caso di Ceci, diventate, grazie al maestro verità vera? Infatti anche nel caso della morte di Cesare Marioni di Forni di Sotto, nome di battaglia Ceci, forse comunista, uno dei primi a salire in montagna con Augusto Nassivera, si era sussurrato, non sentendo più parlare di lui, prima che si fosse suicidato, poi che fosse fuggito in Jugoslavia con la cassa dei partigiani, infine che fosse stato ucciso da fuoco amico. Queste voci, ovviamente, tendevano a screditare il movimento partigiano, e potrebbero esser state messe in circolazione anche dai fascisti locali. Infine il corpo di Marioni fu trovato, mesi dopo, nei paraggi della base partigiana “Stavolo di Pagnuc” crivellato di colpi di mitragliatrice tedesca. (Erminio Polo, op. cit., p. 131).

Forzando queste affermazioni, del tutto inconsistenti (il fatto “non è stato ben chiarito” e “la voce circola con insistenza”), è nata in molti libri, scritti successivamente, la tesi dell’uccisione voluta di Magrini da parte dei partigiani del suo reparto per disaccordi, confondendo, tra l’altro, il ruolo di Magrini, che non era comandante di battaglione ma commissario politico. Chi comandava era Ciro Nigris, Marco.
Di fatto, il maestro ovarese, anche nel dire e non dire, nel sussurrare senza fare nomi, ecc., come ormai non potesse staccarsi dal modo di pensare ed esprimersi del ventennio, non dice nulla, ma da quelle frasi sulla morte di Aulo Magrini prenderà avvio una campagna diffamatoria verso i garibaldini, che toglierà forze e tempo a persone che avrebbero potuto dedicarsi maggiormente allo studio della documentazione sulla resistenza carnica. 
Così a causa di Toppan, fiumi di inchiostro sono stati inutilmente spesi sulla morte di Magrini.

Infine, dato che il testo doveva descrivere la verità per quanto accaduto in val Degano, perfino il numero dei morti fra i partigiani, a fine guerra, relativamente a Prato Carnico, non risulta esatto, (Ivi, p. 49), in quanto i morti non furono dieci ma tredici, dovendosi aggiungere, a quelli citati dal maestro, l’osovano Cleva Emilio, lasciato dissanguare il 2 maggio dai cosacchi, che impedirono al medico Luigi Covassi di intervenire, ed i garibaldini Gino Zanier e Livio Zanier, morti in campo di sterminio.

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Nella parte seconda del volume, il maestro Toppan passa a trattare le distruzioni, i vandalismi, i furti, i saccheggi, gli stupri, condotti dai cosacchi; gli uccisi ed i deportati a causa loro; le abitazioni sequestrate, la biancheria, gli abiti, gli oggetti di un qualche valore sottratti alle famiglie, di cui si trova elencazione anche in : Michele Gortani, Il Martirio della Carnia, ed in documentazione parrocchiale. Così scrive, per esempio, il parroco di Cleulis sull’arrivo dei “russi” in paese.
«Verso le 20 dell’11 ottobre 1944 arrivarono al ponte di Rivat le prime avanguardie nemiche, con carri e camions. (…). Il giorno 12 […] apparirono a Cleulis, alla spicciolata, i primi Cosacchi i quali, con la scusa di cercare i partigiani, andarono per le case portando via tutto quello che faceva loro comodo: biancheria, orologi, catenelle, ed altri oggetti di valore in oro e argento. (…) Il 13 mattina incominciarono la rapina delle pecore e delle capre che caricavano sui loro carri per condurle a Timau. La popolazione terrorizzata lasciava fare, cercando solo di salvare la propria persona». (don Celso Morassi, testimonianza scritta. Originale in Canonica Cleulis, copia in Archivio Ifsml, Udine, Fondo testimonianze, Busta 1 Fascicolo 7, Divisione Garibaldi, Carnia. Per furti e razzie violenze cosacche si confronti anche: Michele Gortani, Il Martirio della Carnia, op. cit., pp. 43-83).

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Delegittimati ed insultati i partigiani, criticati i cosacchi, Toppan pare salvare i tedeschi e non dice nulla dei fascisti, molto preoccupato com’è che essi evitassero conseguenze. I campi di concentramento e sterminio nazisti non appaiono che di riflesso, per esservi finite un paio di persone, e senza che venga loro data importanza;  la resistenza europea vien dimenticata, come le stragi naziste sui fronti Orientale ed Occidentale, che nel 1948 erano certamente note, e via dicendo.

Quindi, nella narrazione sulla storia della resistenza carnica, si inseriva il pubblicista Pier Arrigo Carnier, che divulgava, già nel 1957, una sua breve memoria sui cosacchi in Carnia; che prima di editare “L’Armata cosacca in Italia”, faceva controllare il suo scritto, non si sa perché, dal Padre degli Armeni dell’isola di San Lazzaro, il quale, in relazione alla vicenda cosacca, parlava di similitudine con lo sterminio degli armeni, quasi fossero la stessa cosa; che afferma di aver preso parte «dalla fine della seconda guerra mondiale» a «tutti i raduni cosacchi dei superstiti dello “Stan” di Pjotr Krassnov,ed in particolare, in Austria, alla commemorazione della tragedia sulla Drava» (Pier Arrigo Carnier, L’armata cosacca in Italia, 1944-1945, riedizione Mursia 1990, p. 5); che cita, spesso, fonti cosacche o carinziane, non credo proprio favorevoli ai partigiani, oltre il discutibilissimo Dionisio Bonanni, (Pier Arrigo Carnier, Fonti documentaristiche e testimoniali, in Pier Arrigo Carnier, Lo sterminio mancato, Mursia ed., 2000, pp. 9-10) ed altri, senza riferire se vi sia stata registrazione, e scrivendo da pubblicista, non certo da storico.

In libri successivi, sono stati rivalutati, in un modo o nell’altro i cosacchi, a cui si è dedicata molta attenzione, troppa, secondo noi, negli ultimi anni. Così, per fare solo qualche esempio, dal 2000 sono usciti: il recentissimo: Fabiana Savorgnan di Brazzà, Un popolo senza patria: i cosacchi fra realtà ed invenzione letteraria, in: AA.VV., La Repubblica partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli, il Mulino ed. , 2013, pp. 259-270, ove il testo di Antonio Toppan viene assunto a fonte degna di veridicità, e dove non si comprende la differenziazione fra ciò che vi è di storico e di letterario; Patrizia Deotto, Stanista Térskaia, l’illusione cosacca di una terra, Gaspari, ed., 2005; Fabio Verardo, I Cosacchi di Kransnov in Carnia, Aviani & Aviani ed., 2010, la tesi di laurea di Antonio Dessy, Università degli Studi di Padova, I Cosacchi di Krasnov in Carnia e la loro forzata consegna ai sovietici, anno accademico 2003-2004. Detti studi, in particolare quest’ultimo, potrebbero esser stati influenzati da Alessandro Ivanov, fuoriuscito russo ai tempi dell’Urss, autore di: “Cosacchi perduti: dal Friuli all’Urss”, Aviani, 1989).

In sintesi restarono e restano ancora, secondo certa saggistica locale, colpiti dagli anatemi i soli partigiani, quali fossero causa di tutti i lutti e le tragedie della seconda guerra mondiale, quasi non vi fosse stato ideale alcuno nella loro azione, dimenticando cosa patirono e le frasi con cui siglarono i loro documenti. Infatti era noto anche allora che i garibaldini sottoscrivevano i loro documenti con “Morte al fascismo” (Non «morte ai fascisti», come scrive AntonioToppan, a p. 35), e “Libertà ai popoli”, e gli osovani con: “Viva l‘Italia libera!”, ma alcuni documenti, durante il comando unico, furono siglati con tutte le frasi. 
Pare, da Toppan e da chi lo ha seguito, che la Resistenza sia stata inutile se non controproducente, senza riflettere che ci dette una Costituzione, la libertà di espressione, la possibilità di pluralità di partiti, la democrazia.


grazie a: http://www.nonsolocarnia.info