Massimo Dubini

La casa del diavolo. Capitolo 5


IL FUNERALE DI GIOVANNI CASALI, ANARCHICO DI PESARIIS

 

5.1. Brevi cenni sulla vita.

Giovanni Casali fu una figura di rilevante importanza del movimento operaio nella Val Pesarina, soprattutto nel delicato momento del suo funerale. Egli nacque a Prato Carnico il 15 agosto 1880, di professione falegname, fu uno tra i maggiori propagandisti dell’idea anarchica nella vallata. La gente del luogo lo ha ricordato come una persona comune, che aiutava gli altri ad emigrare, a trovare un lavoro quando il regime fascista non rilasciava passaporti; “una persona conosciuta e stimata, sia come lavoratore che come politico”.
Durante la conferenza del socialista Oddino Morgari nel 1909, tra i libertari che contestavano la politica troppo riformista dell’oratore, egli si rese noto alle forze di polizia quando “per gli esercizi pubblici accusava e biasimava il predetto oratore di essere stato nella conferenza poco energico e troppo ligio alle istituzioni”.
Da quel momento l’autorità ne controllò i movimenti riconoscendone l’influenza fra i compagni della vallata dove svolgeva “con discreto profitto” propaganda anarchica, senza sottovalutare l’influenza fra i compagni che si trovavano all’estero soprattutto in Francia. Infatti dal 1911 Giovanni Casali emigrò a Parigi dove rimase fino al 1914, mantenendo stretto contatto con altri lavoratori carnici emigrati; la stessa camera in cui abitò in via Picpus n. 16, gli fu fornita dal compaesano Ermenegildo Giuseppe.
Da Parigi, nell’aprile del 1912, mandò una sottoscrizione al settimanale pisano L’Avvenire Anarchico che svolse in questo periodo un importante ruolo d’informazione e di formazione per tutto il movimento libertario italiano; Casali era inoltre in contatto con i socialisti di Tolmezzo dove era attiva una forte corrente sindacalista rivoluzionaria che aveva forti convergenze tattiche e organizzative con l’anarco-sindacalismo.
Nel luglio dello stesso anno scriveva ai compagni di Prato Carnico “imprecando contro il governo italiano per lo sperpero di numerose vite umane e di milioni nell’impresa tripolitana quando non ha ancora saputo trovare le somme necessarie per diminuire l’analfabetismo e elevare e civilizzare molte regioni”.
Durante la grande guerra venne esonerato dal servizio militare e lavorò come boscaiolo per una ditta di legnami di Ovaro; finita la guerra al termine delle forti agitazioni sociali e politiche che toccarono anche la Carnia, dovette come molti suoi paesani riprendere la via dell’emigrazione stabilendosi nel 1921 nella periferia di Parigi, a Champigny, dove lavorò fino alla fine dei suoi giorni. Qui aprì insieme alla sua compagna, al cognato Giobatta Casali e ad altri compaesani un piccolo negozio di generi alimentari, ma la sua attività primaria rimase sempre quella del falegname; il negozio venne costantemente sorvegliato dalla polizia, in quanto il Casali “fu sempre largo di assistenza e di aiuti” verso i “sovversivi” che da Prato Carnico emigravano in Francia per ragioni di lavoro. Durante il regime fascista, l’unica visita che egli fece al paese natio, nell’estate del 1930, venne seguita in tutte le sue fasi dalla polizia politica; il prefetto di Udine Motta venuto a conoscenza delle sue intenzioni di far rientro in Francia, ne bloccò la partenza in attesa del nulla-osta del Casellario Politico Centrale; egli “solo il 17 ottobre poté rientrare a Parigi accompagnato dalla segnalazione prefettizia all’ambasciata italiana di Parigi per le opportune disposizioni di rintraccio e vigilanza.”
Dopo anni di emigrazione Giovanni Casali decise di rientrare nella sua valle prima di diventare troppo vecchio. La moglie, Maria Solari ottenuto il passaporto rientrò a Pesariis nel maggio del 1933; lo stesso Casali non avendo avuto intoppi politici doveva raggiungerla pochi giorni dopo, ma la sfortuna lo travolse su di una strada parigina; il 16 maggio mentre transitava in bicicletta nel traffico urbano, venne urtato da una vettura tranviaria cadendo violentemente al suolo. A nulla valse il suo trasporto all’ospedale parigino della Pitiè, la mattina seguente morì per trauma cranico.
La notizia si diffuse immediatamente tra la Val Pesariina, suscitando “una diffusa partecipazione”; la sua compagna decise d’impiegare parte dei risparmi (12.000 o più lire) per far rientrare la salma nella vallata e dargli così una degna sepoltura nella sua terra.

5.2. Il “funerale sovversivo”.

La celebrazione del funerale di Giovanni Casali detto Palu?àn, fu voluta non solo dalla moglie ma anche da molti compagni del defunto decisi a celebrare un funerale “rosso” contro i divieti del fascismo. A livello nazionale oramai il regime aveva preso nettamente il potere, le organizzazioni proletarie erano state sciolte da tempo, così pure tutti i partiti, ad eccezione di quello fascista, naturalmente; il regime cercò di spezzare la solidarietà delle masse popolari con la repressione di ogni organizzazione e circolo autonomi, con il ricatto occupazionale, con il clima di sospetto e di paura. Nel 1933 la Casa del Popolo, il simbolo e il vanto del movimento operaio pesarino, venne espropriata ai soci fondatori e trasferita all’Opera Nazionale Dopolavoro; ridotta a “Casa del Littorio”, ospitò solo i pochi aderenti alle varie organizzazioni fasciste. Stessa sorte subì la Società Operaia, “dopo precise pressioni da parte del Commissario Prefettizio”. Lo stesso movimento Cooperativo di fronte a un’azione di boicottaggio non di parziali interessi economici, ma dello stato, si vide accerchiato e messo alle strette. Eppure nella Val Pesarina il fascismo non ebbe vita facile e fin dalle sue prime avvisaglie venne visto come un’imposizione di un’ autorità non riconosciuta dalla comunità. Un esempio di resistenza alla fascistizzazione fu la difesa armata della valle contro “le squadraccie fasciste nel’ ‘26-‘27” provenienti da Comeglians, un centro commerciale e borghese, dove sorse il primo fascio della zona. L’avvenimento è ricostruito da Osvaldo Fabian che ebbe in esso una parte di rilievo:

“ (…) ad un certo momento i fascisti pensarono di tentare un colpo grosso contro di noi, chiamando a raccolta altri fascisti di tutta la Carnia e dalla pianura (...). L’ambizioso piano dei fascisti, per una fortuita indiscrezione giunse peraltro a nostra conoscenza qualche giorno prima di quello stabilito per la loro spedizione. A Prato eravamo più di trecento comunisti, socialisti e anarchici (…). La difesa era guidata da un ristretto comitato militare, che faceva capo al fabbricato della Casa del Popolo, divenuto una sorta di quartier generale. In un primo tempo sembrava mancassero le armi, ma poi come per miracolo dai nascondigli uscirono armi e munizioni in abbondanza, tutti residuati della guerra conclusasi da così poco tempo.”

Fabian e i compagni elaborarono un minuzioso piano di difesa e contrattacco, tra cui diversi servizi di vigilanza che entrarono in funzione giorno e notte; il tutto era collegato con segnalazioni luminose e d’altro tipo. Ai lavoratori di Prato Carnico se ne aggiunsero altri delle vallate limitrofe formando così un piccolo esercito. Un ponte unica via d’accesso al paese, era stato minato. Sarebbe stato fatto saltare alle spalle della colonna, che non avrebbe più avuto scampo. La “spedizione punitiva” prese il via, ma saputo delle forze esistenti nella vallata, si ritirò rapidamente indietro; i fascisti allora non passarono, ma vi giunsero più tardi, legalmente, con le leggi liberticide e la sopraffazione di regime.
Nella valle i fascisti furono “pochi, conosciuti e tutt’altro che aggressivi” ; sia per i vincoli di parentela che per la condizione minoritaria sul piano psicologico, non sembravano in grado di opporsi ad un iniziativa di massa. Anche a Prato Carnico non fu più possibile tenere alcuna riunione e chi voleva fare qualcosa doveva ritrovarsi clandestinamente, in casa di vecchi compagni; comunque anche in queste condizioni, continuava a persistere un embrione di organizzazione clandestina che faceva capo ad antifascisti come “l’anarchico Cinc, Luigi D’Agaro, amico del Palu?àn, oppure il comunista Osvaldo Fabian”, figlio di Giacomo uno dei primi socialisti della Val Pesarina. Quindi se la possibilità di iniziativa erano limitate, era pur sempre assicurata la continuità del movimento operaio che come si è potuto vedere mise in questa zona radici molto forti; un esempio di questa continuità è ben espresso dalla commemorazione di Giovanni Casali.
Dai diari di Roia ai primi di giugno leggiamo:

“è morto in Francia un Pesarino e ne han fatto trasportar qua il cadavere. La vedova voleva che si facesse funerale religioso, altri no. Egli stesso avea disposto lo si seppellisse senza preti (…); il morto era un Casali da Palucana notissimo anticattolico”.

Il funerale si svolse la mattina del 1 giugno 1933, alla presenza di “oltre 1500 persone”; tutta la vallata, donne e bambini insieme ai compagni dell’emigrante si strinsero insieme ai parenti dell’emigrante, mentre la musica funebre della banda musicale aumentava la commozione generale.


La banda musicale del dopolavoro che suonò al funerale di Giovanni Casali, in una foto del 1933

La “fiumana di popolo” ordinatasi secondo il rituale consueto, accompagnò la salma verso il cimitero di Pesariis. Tra di essi –cosa molto interessante-vi furono anche il podestà e il Segretario Politico, il presidente dell’Opera Nazionale Balilla; presenti ma silenziosi, in quanto sapevano bene di non contare che su pochi adepti, per lo più spinti dal bisogno e dall’indigenza. Passando per le vie dei paesini, altri valligiani si unirono al corteo, fino a giungere al camposanto, un centinaio di metri fuori del paese, in un punto dal quale si vedono bene il torrente Pesarina e parte della vallata.
La bara venne posta in un angolo a sinistra in “terra scomunicata”, dopodiché presero la parola tre operai di diverse tendenze che “pronunciarono coraggiose parole di incitamento all’unione di tutti gli operai per la lotta contro il regime di schiavitù e di fame instaurato dal fascismo”. Uno di questi fu Osvaldo Fabian, comunista e cugino del defunto, forse lo stesso che, secondo i diari di Roia “al cimitero parlò esaltando la Francia che dà lavoro e lascia libertà” e che rivolgendosi al morto esclamò “di essere dolente di non poter dire quanto sentiva nell’animo”. Stesso tono nelle parole dell’anarchico Luigi D’Agaro detto Cinc, che parlando del compagno “ne descrisse l’orgoglio di essere anarchico e l’impegno costante per l’edificazione di un mondo di libertà e di eguaglianza” e con un attimo d’incertezza guardando in viso i presenti proseguì con tono più basso: “caro compagno dato che siamo in dittatura non posso pronunciare, non posso dire tutta la verità, molte cose vorrei dirti, ma tu sai che non posso”. Per ultimo parlò Odorico Gonano; purtroppo non rimangono informazioni riguardo il contenuto dell’estremo saluto al Casali. I dirigenti locali non intervennero, e stettero in silenzio ad ascoltare le parole pronunciate, quindi la bara venne deposta nella fossa e ricoperta di terra prima di ricevere una definitiva sistemazione. Alla fine della cerimonia la gente fu soddisfatta di questa dimostrazione laica e libertaria, ma molti si preoccuparono delle possibili rappresaglie da parte dei fascisti se il fatto non fosse rimasto sconosciuto. Le stesse autorità che vi parteciparono rischiavano di porre in cattiva luce il loro operato oltre che dimostrare la loro debolezza e incapacità nei confronti delle autorità superiori.
La gente, almeno in questa zona, con questo funerale espresse chiaramente il suo antagonismo radicale al fascismo; l’onorare un rivoluzionario, un anarchico in tempi di dittatura fascista fu un atto di forte dissenso al potere vigente.


La lapide di Giovanni Casali, detto Paluçàn, collocata nel dicembre 1983 nel Municipio di Prato Carnico

 


Luigi D’Agaro, detto “Cinc”


Un gruppo di emigranti della Val Pesarina nel 1924 ad Arras (Francia)
Al centro, seduto, Osvaldo Fabian

5.3. Il regime risponde.

Come si è visto, al funerale parteciparono anche persone rappresentanti cariche fasciste come il Podestà, il Segretario Politico Antonino Casali che aderirono a tali idee con scarsa convinzione; dalle testimonianze raccolte da Claudio Venza risulta che al funerale vi fossero due forestieri vestiti in borghese, che si misero all’entrata del cimitero controllando tutti i passanti. Il 3 giugno giunsero i carabinieri di Ovaro insieme a due persone di Pesariis, i quali misero in stato di fermo ben 14 persone; l’ordine di arresto che seguì il funerale dovette quindi partire da un’altra parte. Questa versione viene anche confermata dai diari di Roia nel quale in data 11 giugno troviamo scritto che: “al funerale c’eran dei forestieri. V’è chi diceva che erravi due commissari travestiti” e riguardo all’azione delle autorità fasciste locali continua: “da Roma si domandò a Udine quali provvedimenti si fossero presi. Udine rispose di non saper nulla (...). Dicesi che il podestà ed il segretario politico chiamati a Udine han sentito un buon Craut. Pare si faccia loro la colpa dell’aver lasciato far il corteo e non interrotto il discorso”.
A mettere sull’avviso l’arma dei carabinieri che procedettero all’arresto degli autori della manifestazione fu Ciro Solari, esponente del fascismo pesarino, il quale oltre ad impartire una lezione ai sovversivi, volle utilizzare strumentalmente gli effetti repressivi del funerale di Casali per spianarsi la via verso la carica di Podestà alla quale ambiva da tempo; “c’è chi pensa che podestà e segretario siano stati troppo bonarii, e che la realtà sia stata gonfiata da qualche zelante nemico del podestà, contro del quale da taluno lavoravasi da parecchio tempo, a siffatti zelanti dovrà esser grato il comune dell’esser tornato in mano de’ forestieri”.

Nella cronaca dei diari di Roia, si deduce anche che il rappresentante del governo a Udine non fu messo al corrente dell’accaduto; infatti al ministero dell’interno giunse una comunicazione telegrafica dei locali carabinieri che annunciavano l’identificazione di tre oratori che “esaltarono la nazione francese come asilo favorevole antifascisti biasimando invece nazione italiana per politica contraria interessi classe operaia”.
La stessa decisione per il confino dei responsabili venne presa dal capo del governo in persona, Benito Mussolini; e quando il ministero telegrafò al prefetto di Udine, Temistocle Testa, per provvedere a riferire sull’accaduto, questo si sentì “inequivocabilmente scavalcato dagli avvenimenti”, rispondendo con imbarazzo che nemmeno la questura dei carabinieri di Ovaro, distante pochi chilometri da Pesariis, ebbe modo di intervenire in tempo per impedire la manifestazione antifascista.
La reazione del prefetto si dimostrò tardiva e goffa, provvide a mandare sul posto immediatamente un rappresentante di P.S. per ulteriori indagini sull’accaduto e per redarguire “quel piccolo comune sito all’estremo limite della provincia in zona montuosa ed isolata, che si è reso da tempo tristemente noto per l’indole ribelle dei suoi abitanti invasati da idee anarcoidi che acquisirono in lunghi anni di emigrazione all’estero”. La grande presenza della popolazione al funerale venne giustificata inizialmente come l’“omaggio apolitico al compaesano buono e generoso”, ma l’evento non poteva non spiegarsi con la duratura tradizione rivoluzionaria di Prato Carnico, definita da sempre la “rocca-forte del comunismo e dell’anarchismo friulano”. La relazione del Prefetto riassunse le fasi salienti dell’episodio, individuando gli errori e le rispettive responsabilità; comunicò l’avvenuta estromissione del Segretario Politico e propose la revoca del Podestà. Per concludere suggerì l’assegnazione al confino di polizia di nove dei tredici arrestati nelle carceri udinesi di via Spalato. Il 24 giugno 1933 si riunì la Commissione Provinciale per il confino che inviò alla residenza obbligata, sull’isola di Ponza, cinque antifascisti ridimensionando le richieste del Prefetto: “condannati a cinque anni di confino in un’ isola Luigi D’Agaro detto Cinch, Scel cioè Italo di Antonio Cristofoli da Baia e due pesarini (...). Tra i condannati è anche il figlio del socialistissimo Giacomo fu Osvaldo q. Antonio Fabian di Mugniton, nipote o almeno parente del morto Casali. Guido di Cucena (Cimador di Duri) è a Prato (perché malato) guardato dì e notte da carabinieri o militi o guardie.”Gli altri prigionieri fecero ritorno a casa, tra questi il manovale Edoardo Maonaci di Pesariis, al quale venne dato un anno di confino. Vennero ammoniti Ezio Puntil di Pradumbli, boscaiolo, e i pesarini Vittorio Machin, falegname, Secondo Monaci e Odorico Gonano, muratori; ricevettero la diffida i tre muratori Ermenegildo martin di Truia, Giuseppe Solari e Albino Cleva di Pesariis. Per Mattia Machin, muratore di Pesariis, e per Innocente Petris, falegname di Pradumbli, non venne preso alcun provvedimento.
Il confino rispondeva ad un esigenza pratica da parte del regime fascista: togliere, sradicare dalla base gli elementi che potevano divenire punto di riferimento per possibili embrioni di sovversione e pericolo, recidere i legami fra le “avanguardie e la base”. Tutti gli esiliati nati alla fine dell’800 vennero a contatto con una tradizione fortemente impregnata di anarchismo e socialismo che li portò ad opporsi in prima linea contro l’affermazione di una dittatura che ne negava ogni valore.
Il funerale non esaurirà il potenziale di azione antifascista locale, ma ne rappresentò per molto tempo l’espressione collettiva più incisiva; basti ricordare che in alcune tipiche ricorrenze proletarie, come l’anniversario della rivoluzione russa, o il primo maggio, venivano collocati drappi rossi sui campanili o sugli alberi. Tra i ricordi di don Roia leggiamo: “raccontasi che in questi giorni è stata una sommossa o ribellione in canale, onde v’è andata su la forza, ne hanno arrestati una ventina, ma trattenuti sei”, oppure “han condotto in prigione 12 canalotti perché il 28 hanno esposto sul campanile la bandiera rossa”; e ancora “alcune sere fa due o tre giovani di Truia rincasando la sera dopo un licôf fatto a Pieria per certo legname tagliato e molto probabilmente un po’ brilli, si pensaron di cantare bandiera rossa. Furono uditi, se ne fece inquisizione, chi doveva sapere chi fossero dovette dirlo”.


Italo Cristofoli, detto “Scel”

Ci furono anche diversi attidi sabotaggio come il più volte vilipeso albero piantato per ricordare la morte del fratello del duce, Arnaldo Mussolini: “L’abete onoranze Arnaldo Mussolini, per la seconda volta trapiantato, sta cessando di vivere”. All’azione antifascista, che “non fu un fenomeno legato all’attività di pochi esaltati”, si deve aggiungere quella condizione mentale, quelle battaglie che affondavano le loro radici nel movimento operaio dei primi del ‘900, senza le quali questi lavoratori e tutta la gente della vallata, non avrebbero potuto crescere in un ambiente democratico, con un forte senso di rispetto per l’uomo e la sua libertà.


Guido Cimador, detto “Cucena”