Carlo Sabatini

Il marò Battiloro


Il 15 agosto 1942, alle ore 08,00, salpava da Napoli un convoglio diretto a Tripoli, costituito dalla Motonave Rosolino Pilo (8.326 Tsl) e dai Cacciatorpediniere Maestrale (capo scorta) e Vincenzo Gioberti.

Alle prime ore del giorno 16 il convoglio era dirottato a Trapani, da dove ripartiva alle 06,30 del giorno 17.
All’uscita dal porto, il Maestrale aveva segnalato che, a causa di un’avaria alle colonnine di punteria di dritta, esso, contrariamente alle norme vigenti, avrebbe occupato il posto a sinistra del Pilo; il Gioberti, pertanto, procedeva stando sulla dritta, dalla parte del sole.
La navigazione procedeva tranquilla: i due Caccia navigavano in posizione di scorta avanzata, seguiti dal Pilo e nel cielo vigilava un certo numero di aerei tedeschi, i quali, tuttavia, verso le ore 15,00, giunti al limite dell’autonomia, abbandonarono il convoglio.
Nonostante il sole infuocato e l’intensa luce solare che si rifletteva nell’acqua, le vedette vigilavano attente; alle ore 15,50 veniva segnalato: “aerei ore 6.”
Dall’ala di plancia di sinistra l’Ufficiale di guardia (ero io) si volse a guardarli e mentre gridava “Sono troppi e troppo bassi!”, precipitandosi a dare l’allarme col clakson, gli aerei, che stavano arrivando velocissimi, si allargavano verso l’esterno e attaccavano il convoglio con rotta perpendicolare ad esso, sul suo lato dritto, avendo il sole alle spalle e sparando con tutte le loro armi (quattro mitragliere da 20 mm e quattro da 7,7 mm).
Il nostro fuoco contraereo era violentissimo, ma, ciò nonostante, uno degli aerei, puntando direttamente su noi, all’altezza della plancia, falciò tutto il personale che si trovava dalla sua parte, dal FAPG a sottocastello.
A un certo punto l’aereo lanciava contro di noi anche un siluro. Una rapidissima accostata a dritta, con tutta la barra, evitava che la nave fosse colpita: il personale che si trovava a poppa riferì, poi, che il siluro era passato a pochi metri.
L’ordine di accostare era stato dato dal Comandante (C.F. Gianroberto Burgos di Pomaretto) che, pur colpito alla prima raffica, si era rialzato in tempo per ordinare: “Tutta la barra a dritta!”
E il timoniere, ucciso dalla seconda raffica, era riuscito ad eseguire l’ordine prima di cadere.
L’aereo cabrò nettamente sulla nostra verticale, così basso che il puntatore del complesso binato da 20 mm, anch’egli ferito, vide arrivare a segno i suoi colpi, ma senza alcun risultato, a causa della corazzatura dell’aereo.
Contemporaneamente a noi gli aerei attaccarono anche il Pilo che non solo fu mitragliato, ma fu anche colpito da un siluro che lo immobilizzò. Il Maestrale, che era rimasto miracolosamente illeso, ne tentò inutilmente il rimorchio. Nella notte il Pilo fu nuovamente silurato e affondato dal sommergibile P 44 (United).
L’attacco dell’aereo, anche se non aveva provocato danni tali da compromettere l’efficienza della nave, aveva avuto, tuttavia, risultati devastanti: a prescindere da alcuni piccoli focolai d’incendio, peraltro prontamente domati, ben 83 uomini erano stati colpiti.
Tra i feriti c’erano il Comandante, il Comandante in Seconda, il Direttore del Tiro e il suo sottordine, l’Ufficiale Tiratore e l’Ufficiale Medico: in pratica tutto lo Stato Maggiore della nave, esclusi l’Ufficiale di Rotta e il suo sottordine.
Ad eccezione del personale di macchina, ufficiali compresi, che non aveva avuto perdite, la maggior parte dei feriti era costituita da cannonieri, da mitraglieri e dal personale addetto alla plancia.
Benché ferito alla mano destra, senza l’aiuto del sergente infermiere, ferito piuttosto gravemente, cominciai subito a soccorrere i numerosi feriti, aiutato dai due ecogoniometristi che, a viva forza, ero riuscito ad addestrare come infermieri ausiliari, senza, tuttavia pensare che, un giorno, essi avrebbero potuto veramente essermi di aiuto.
Nonostante tutto al momento dello sbarco tutti i feriti non solo erano stati medicati, ma avevano anche il loro bravo cartellino, che, come prescritto, indicava le loro ferite.
In plancia, gravemente ferito all’addome, giaceva un marinaio che con la plancia non aveva nulla da vedere. Era il marò Battiloro, ripostiere del Quadrato Ufficiali, che poco prima dell’attacco era salito in plancia per portare un caffè al Comandante.
Stante le sue condizioni egli fu adagiato sul divano del Comandante, in Sala Nautica, mentre questi, anch’egli gravemente ferito, veniva sistemato su una sedia a sdraio accanto al divano.
Battiloro era un umile pescatore di Torre del Greco, grassoccio, con i capelli rosso fuoco e il volto e le mani ricoperti di lentiggini: era imbarcato, recluta, poco prima che il Gioberti lasciasse l’Arsenale di La Spezia, al termine dei grandi lavori.
All’atto dell’arruolamento, Battiloro era stato classificato “Marinaio servizi vari” (in gergo Marò) e, giunto a bordo del Gioberti, era stato destinato, quale ripostiere, al Quadrato Ufficiali: il suo posto di combattimento era al complesso di poppa, quale rifornitore.
Battiloro era un bravo ragazzo, disciplinato, gentile, servizievole, voglioso di imparare, ma aveva un grosso difetto, quello di non curare in alcun modo la divisa, tanto da essere considerato “sporco”.
Era stato così che un giorno il Comandante, avendolo visto in quelle condizioni, lo aveva duramente rimproverato, minacciando addirittura di sbarcarlo e aveva ordinato di allontanarlo dal Quadrato Ufficiali.
Battiloro era stato destinato, allora, al Quadrato sottufficiali, ma allontanato anche di qui, era sceso ancora più in basso, adibito alla pulizia sottocastello: questo aveva, tuttavia, fatto sì che egli cominciasse a curare maggiormente la persona, tanto da riuscire a compiere il cammino inverso e tornare a fare il ripostiere in Quadrato Ufficiali.
E nella sua qualità di ripostiere, Battiloro era venuto a portare un caffè al Comandante: si era, cosi, trovato in plancia al momento dell’attacco ed era stato colpito.
Ora egli era in Sala Nautica, sdraiato sul divano del Comandante, anch’egli ferito, che era li, su una sdraio, vicino a lui. Battiloro, per quanto gravi fossero le sue ferite, era pienamente cosciente della situazione e, anche se le forze lo andavano abbandonando, aveva chiesto che non lo lasciassero sul divano del Comandante, perché non stava bene che lì ci fosse proprio lui.
A un certo punto egli si rivolse al Comandante e con voce flebile gli disse: “Vedete, Comandante, ora sono pulito e Voi non mi sbarcherete più vero?”
E aggiunse: “Ora sono ferito, ma quando sarò guarito tornerò a bordo e allora Voi mi terrete ancora?”
Il Comandante incominciò, allora, a parlargli: gli disse che, sì, aveva già notato come egli fosse in ordine con la divisa, poi, continuò dicendo che tutti e due sarebbero andati insieme all’ospedale e che poi tutti e due sarebbero andati in licenza (perché i feriti, per tornare a bordo debbono aver recuperato tutte le loro forze) e che poi, sempre tutti e due, sarebbero tornati a bordo del Gioberti.
Le condizioni di Battiloro andavano aggravandosi, ma egli faceva cenno di assentire con la sua testa rossa. Poi, a un certo punto, si rivolse al Comandante e gli chiese che gli prendesse la mano e così, mentre il Comandante, tenendogli la mano, continuava a parlagli, Battiloro, a poco a poco, si spense: solo allora, lentamente, il conte Gianroberto Burgos di Pomaretto sciolse la sua mano da quella dell’umile pescatore di Torre del Greco.
A notte il Gioberti entrò nel porto di Trapani. La manovra fu diretta dal Comandante che si teneva in piedi sorretto da due uomini. Al posto di manovra, a poppa, giacché quasi tutti i cannonieri erano morti in combattimento, c’era il personale di macchina, ai miei ordini: quello era, infatti il mio posto di manovra abituale, agli ordini del Direttore del Tiro.
Nonostante l’inesperienza degli uomini, la difficoltà di ormeggiare la nave col fianco alla banchina, a causa della presenza di altre unità ormeggiate di poppa, la manovra riuscì più che bene.
Le perdite del Gioberti erano state forti: 67 feriti e 16 Caduti. Tra questi c’era il Marò Battiloro che si era presentato al suo incontro col Destino stando nel posto sbagliato, a bordo di una nave che si era trovata, anch’essa, nel posto sbagliato.

Carlo Sabatini
Presidente della Federazione di Modena dell'Istituto del Nastro Azzurro

(pubblicato sul periodico "Il Nastro Azzurro" n. 4 2007)

Dino Buzzati

La grande ora di un "marò"



Eccoli insieme, il primo e l’ultimo uomo della nave, seduti fianco a fianco; riuniti dalla misteriosa colleganza del sangue, straordinariamente vicini come quelli che la morte ha designato a seguirla. Il fragore della breve battaglia si è spento. I cannoni del cacciatorpediniere tacciono, né si ode più l'orribile crepitare delle armi nemiche, né l’urlo degli aeroplani. Il comandante, con una fulminea manovra d’istinto, ha evitati i colpi sincroni di tre aerosiluranti. Ma immediatamente gli “Spitfire" si sono gettati sul bastimento spazzandolo coi roventi pettini delle mitragliere. Una due tre volte si sono precipitati contro, sfiorando gli alberi, e perforavano con perfidia la plancia dove è il cervello della nave.

Il comandante, capitano di fregata Gianroberto Burgos di Pomaretto [essendo in tempo di guerra, nell'articolo il nome viene omesso], è caduto alla prima raffica. Ha visto i nemici ritornare all'attacco, esili sagomette che si facevano in pochi secondi macchine immense, e pareva dovessero sfracellarsi contro, e invece passavano via sibilando. Ha visto ogni volta palpitare le fiammelle delle otto mitragliere, e le traiettorie dei proiettili traccianti parevano convergere proprio sulla sua faccia. Così si era sentito trafiggere - come delle sorde botte alle gambe e al braccio destro - e aspettava, ne era ormai certo, il feroce ultimo colpo. Invece il fragore si è spento, intorno a lui nessuno più resta in piedi, ma dall’impressionante silenzio tornano a poco a poco ad emergere le voci amiche della nave, il ruggito dei ventilatori, il sibilo sottile del vento, il tic-tac dei contagiri di macchine simili a orologi matti che ogni tanto si fermino, stanchi, balbettino, poi riprendano la corsa affannati. Dio sia lodato, la nave cammina.
Lo hanno sollevato dal pavimento, ma lui non lascia la plancia finché i compagni morti o feriti non siano portati via, il timone, i telegrafi di macchina, la rotta affidata a mani sicure. Non riesce più a muovere il braccio destro, anche la mano è come morta, un calore viscoso gli scende lungo le gambe e gli occhi cominciano ad appannarsi, non resistendo più al sole d’agosto il quale risplende sul mondo con indifferenza infinita.
E ora, per ultimo, acconsente a farsi portar via, nella sala nautica adiacente alla plancia, dove lo possono medicare. Ma sul divano, dove suole dormire i magri inquieti sonni di navigazione, c’è disteso qualcuno. Nella penombra stenta a riconoscerlo, poi con un certo stupore si accorge che è il marinaio Battiloro, proprio l’ultimo si potrebbe dire nella gerarchia guerriera della nave, un “ripostiere’ del quadrato ufficiali, uomo di fatica della cucina, uno sguattero si direbbe se non fosse un soldato. Un “marò" dei servizi vari destinato quando c’è combattimento alla più semplice e umile delle fatiche belliche, cioè al rifornimento dei pezzi.
Si ricorda anche di averlo incontrato quattro giorni fa all'ingresso del quadrato ufficiali; e il comandante, imbarcato da poco, si era fermato a guardare quel tipo curioso, che non aveva mai visto: tarchiato, rosso di capelli, lentigginosa la larga ingenua faccia da duro lavoratore; era unto e in disordine come se uscisse da un naufragio. E il comandante era andato sulle furie: «Non ti vergogni? Non vedi in che stato sei? Lo sai che sei marinaio? Sulla mia nave, mettitelo bene in mente, di gente sporca non ne voglio.» L’altro non aveva fiatato, immobile sull’attenti. «Come ti chiami?» «Battiloro.» «Di dove sei?» «Torre del Greco.» «E che cosa fai a bordo?» «Come, che cosa faccio?» «Ma sì, che servizio fai?» «Servizi vari, comandante, sono al riposto ufficiali.»
Allora il comandante aveva notato che Battiloro aveva in mano uno straccio, evidentemente stava facendo pulizia da qualche parte e questo poteva essere una giustificazione almeno parziale di tanta trasandatezza. Ma il marinaio non aveva tentato di giustificarsi; fissava smarrito il comandante quasi fosse un dio disceso sulla terra appositamente per confondere lui, Battiloro, ripostiere del quadrato ufficiali, e farlo consapevole delle sue imperdonabili colpe. Ma gli era parso che il comandante a un tratto quasi sorridesse e poi l’aveva visto sparire giù per la scaletta per il suo alloggio.

Adesso il capitano Burgos se ne ricorda. Ora però le cose sono diverse, il fuoco della guerra è passato sulla nave bruciando, e lasciando le anime nude. Qualcosa di grande e tremendo è successo e il cuore di ciascuno, più o meno, ne è rimasto mutato. «È ferito gravemente, due pallottole al ventre, di cui una esplosiva. Niente da fare» mormora il capitano medico accennando al marinaio sul divano.
Eppure, come vede entrare il comandante insanguinato, Battiloro fa per alzarsi. «No, no, resta» gli dice subito il comandante «resta disteso. Io mi metto su una sedia a sdraio.» Battiloro fa finta di non sentire. Alzarsi da solo non può, non ne avrebbe proprio la forza. Ma con grande fatica, e probabilmente con sofferenza grandissima, riesce a mettersi a sedere così da lasciar posto. Ed ecco il primo e l’ultimo uomo della nave seduti fianco a fianco.
Chi sa come Battiloro è rimasto ferito? Come mai era in plancia? Forse era venuto a portare un bicchiere d’acqua o un caffè a qualche ufficiale e non ha fatto in tempo a raggiungere il suo posto di combattimento? Solo più tardi, nella calma dell’ospedale, riandando a ogni particolare di quel pomeriggio, il comandante si chiederà questo. Ma ora gli sembra quasi naturale che il marinaio Battiloro gli giaccia accanto.
Sino a poco fa si è lamentato con piccoli monotoni gemiti. Da quando è entrato il comandante non si lamenta più. La comparsa del comandante gli dà anzi una curiosa inquietudine; Battiloro lo guarda, socchiude le labbra, sembra voglia dirgli una cosa molto importante, poi si trattiene. Ora si rende conto di appoggiare la testa su una giubba da ufficiale che un infermiere gli ha dato per cuscino; gli viene un dubbio, lentamente scosta una manica, vede i gradi di capitano di fregata; allora comincia a scusarsi, cercando di togliersela di sotto il capo. Giacché, lui, non lo sapeva, il comandante “lo perdonasse", ma spera di non averla macchiata. Naturalmente il comandante interviene, ordinandogli di tenerla. Ma questa scoperta ha accresciuto la sua inquietudine. Adesso cerca di farsi piccolo, stringendosi nell’ultimo angolo del divano per dare meno noia possibile. La sfuriata dell’altro giorno torna a risonargli nel cervello. Socchiude ancora le labbra per parlare, poi si trattiene. È veramente in preda a una confusione indicibile. Finalmente Battiloro si decide: «Comandante...» chiede timidamente, ma come si è fatto flebile il suo vocione da pescatore.
«Dimmi, Battiloro, cosa vuoi?»
«Comandante, volevo dire: oggi non sono mica più sporco, avete visto?»
Il comandante lo guarda e sorride. Poi gli prende una mano e gliela tiene stretta. «Ma sì che ho visto. Bravo sei stato. Ma non preoccuparti di questo. Adesso devi pensare a guarire e...»
«Guarire?» fa il marinaio. «Per me è finita, comandante, lo so. Solo mi dispiaceva che...»
Gli dispiaceva soltanto che il comandante non si fosse accorto come lui fosse in ordine e pulito. Sa di dover morire. Eppure sembra non pianga la gioventù. né le cose lontane, né la mamma, né le tante bellissime cose che aveva progettato di fare. Gli importa solo di andarsene da bravo soldato, con le carte in regola, e il comandante abbia un buon ricordo di lui.
Si appresta così a lasciare il mondo con molto decoro, e con una piccola frase ha riscattato il suo roggio volto - ora stranamente purificato -, le grosse mani, il rustico aspetto. No, non è divenuto un eroe con quella piccola frase, tuttavia si è sollevato parecchio nella schiera degli uomini e nessuno può sostenere che adesso egli sfiguri sul divano del comandante.
«Battiloro» gli dice amorevolmente il capitano Burgos «Vedi? Tu sei un semplice marinaio, io sono il comandante, eppure eccoci qui vicini, tutti e due facciamo la stessa guerra, tutti e due siamo stati feriti, tutti e due adesso andiamo all'ospedale e poi ce ne torneremo a casa guariti. Ci pensi, Battiloro, a quante cose avrai da raccon...»
Ma la nave, correndo sul mare, dondola per il rollio a destra e a sinistra e anche i pensieri oscillano e non si capisce più bene se è vero oppure è un sogno. Se è un sogno essere seduto sul divano del comandante, con la testa appoggiata sulla giubba del comandante, e che il comandante gli sia vicino e gli tenga stretta una mano e gli parli proprio come farebbe a un figliolo. Sì, deve essere proprio un sogno perché la voce del comandante si fa sempre più vaga e lontana, e tutto a poco a poco svanisce.

Corriere d'informazione, 26 aprile 1943

(pubblicato poi in: Dino Buzzati, Il buttafuoco. Cronache di guerra sul mare, Mondadori, 1992)

Dino Buzzati

Una visita difficile

 

Il capitano di fregata Gianroberto Burgos di Pomaretto andò un giorno da Napoli a Torre del Greco per trovare la madre di un suo marinaio, di nome Battiloro, morto in combattimento. Entrambi erano rimasti feriti gravemente dalla stessa raffica, in plancia. E si erano poi trovati accanto, sul divano della sala nautica, a farsi medicare: il valoroso comandante del cacciatorpediniere, nobile piemontese, fianco a fianco col più umile uomo di bordo. Era questi un ragazzo molto semplice, quasi rozzo, un pescatore senza istruzione; eppure era morto in bellezza. Poiché qualche giorno prima era stato rimproverato per la divisa in disordine, quando si sentì prossimo alla fine: «Avete visto, comandante» disse «che oggi sono pulito?» Non di lasciare il mondo era preoccupato, ma soltanto di andarsene bene, come fanno i bravi soldati. E la sua immagine era rimasta nel cuore del capitano Burgos specialmente cara; simboleggiando il bel cacciatorpediniere dovuto lasciare, l’animo generoso dell’equipaggio, le ore indimenticabili e pure della battaglia.

Il capitano di fregata Burgos era faticosamente guarito. Ma ora non navigava più, ora se ne stava chiuso dal mattino alla sera in un comando, fra pratiche e telefonate. Le ferite gli facevano ancora male. E col passar del tempo cresceva il desiderio di conoscere la madre di Battiloro, un progetto formulato dapprima senza persuasione. Aveva l’impressione di poter ritrovare in lei l’animo stesso di Battiloro, di tornare per qualche istante alle giornate eroiche ormai lontane.

In un pomeriggio caldo e caliginoso egli si fece condurre in macchina a Torre del Greco. L’auto si fermò in una piazzetta scoscesa. Su per quella stradetta, a sinistra, era l’abitazione di Battiloro. Proseguire tuttavia era impossibile perché una casa, crollando, aveva bloccato il passaggio. Qui erano venuti, proprio il mattino di Pasqua, gli aviatori nemici; e intorno non c’erano che innocenti case di pescatori e marinai, proprio niente altro, non cantieri, non depositi, non ferrovie, nulla che avesse a che fare con la guerra. Allora il comandante, sceso di macchina, si incamminò a piedi verso l’opposto ingresso del vicolo. Era un labirinto di strade povere e semideserte. Ma tutto intorno orti verdissimi che mettevano abbastanza allegria. Lo seguirono una decina di ragazzetti, follemente incuriositi da quell’ufficiale così elegante con le cordelline d’oro a una spalla.

Il comandante imboccò il vicolo, stretto tra due barriere di muri. Stranamente, verso la metà, esso si spalancava alla luce. Anche qui erano cadute le bombe. Una casa a destra era crollata. In un’altra, a sinistra, affacciandosi a un androne, si vedeva un largo foro circolare nel soffitto; e attraverso il foro, come in certi spaccati pubblicitari di transatlantici, la stanza di sopra; un comò, un santo a una parete, il letto fatto, tutto assurdamente tranquillo e in ordine. Un piede del letto era sospeso nel vuoto. Non si udivano voci. Possibile che...? Ma Burgos scartò il troppo crudele pensiero.

Gente usciva intanto dalle case. Non erano però bene informati. Indicarono la casa dei Battiloro ma per il resto si contraddicevano. Qualcuno confermava che un figlio era morto in guerra. Altri dicevano che non un figlio era morto ma una figlia, una figlia sposata, nell’ultimo bombardamento (si trovava in rifugio con in braccio un suo bambino di sei giorni; lei era rimasta schiacciata, il piccolo invece lo avevano estratto dalle macerie senza neppure un graffio). Finalmente, a forza di chiedere, si riuscì a sapere: dei figli Battiloro uno era caduto in guerra, una nel bombardamento di Pasqua, una terza, pure sposata, era rimasta ferita e adesso si trovava all'ospedale; poi ce n’era un quarto, ancora ragazzetto.

Burgos entrò nella casa. Una minuscola scaletta menava a una larga terrazza sulla quale diverse porte si aprivano. Uscì un giovanotto, parente dei Battiloro; marinaio sui dragamine, venuto in licenza da Cefalonia. Disse che la mamma Battiloro era uscita, probabilmente si trovava in una casa vicina da amici; avrebbe mandato subito qualcuno a chiamarla. Intorno si vedevano case di pescatori, bianche di calce, tutte terrazze, terrazzini, scalette esterne. Una ragazza invisibile cantava. C’era un’aria grigia da pioggia. Il comandante era leggermente a disagio. Che cosa avrebbe potuto dire adesso a quella madre?

Il marinaio in licenza chiacchierava, fin troppo disinvolto a motivo del vestito borghese.

Ma a un tratto il comandante scorse il mare. Tra due spigoli di case ne appariva un pezzetto, come miraggio conturbante. «Ecco,» disse al marinaio in licenza «ecco un dragamine come il tuo» e faceva segno a una minuscola sagometta nera al limite dell’orizzonte. Il giovanotto sorrise: «No, comandante, quello è uno scoglio. Da qui lo vediamo quando soffia scirocco. Quando c’è libeccio invece non si vede più.» Seguì un silenzio imbarazzato. Finché comparve un prosperoso ragazzetto tutto bianco di farina; era il più giovane dei Battiloro, garzone presso un fornaio. «Come assomiglia a suo fratello» disse il comandante, e il volto gli si illuminava. Poi lo strinse affettuosamente: «Vedi? Io sono il comandante della nave dove era imbarcato tuo fratello. Era un bravo marinaio, sai? Tu devi essere degno di lui. E dimmi, quando sarai grande, farai anche tu il marinaio, vero?» Il fanciullo senza timidezza rispose: «No, io farò il panettiere.» Rise il marinaio in licenza; anche il comandante avrebbe voluto ridere ma non ci riusciva.

Ed ecco vennero a dire che la mamma Battiloro non era presso i vicini bensì in casa della seconda figlia, quella ferita, distante qualche chilometro. «Andiamoci» fece il comandante e ridiscese nel vicolo dove i monelli stavano ancora aspettando. In automobile salì anche il marinaio per insegnare la strada.

La macchina corse per la litoranea del golfo, fiancheggiata da siepi ininterrotte di case che sembravano un unico smisurato paese. Si fermò dinanzi a una delle tante abitazioni, bassa, polverulenta e slabbrata. Dal marciapiede si entrava in uno stanzone vuoto e brulicante di mosche, dove un bambino stava giocando per terra. Seguiva una grande camera zeppa di mobili, con tre letti giganteschi, nella quale erano riunite le donne. Qui tutto era rassettato e pulito.

La mamma di Battiloro sedeva su un breve divano. Era una dolce vecchietta, estremamente quieta e composta. Sul suo volto non c’era sofferenza; ma neppure calore di vita. Desideri, illusioni, ansie, vanità erano in lei finiti per sempre. Il comandante le sedette vicino, le parlava amorevolmente, le spiegava chi era, perché era venuto a trovarla. Lei taceva, faceva segno di sì, di sì, ma sembrava lontana, Dio sa se capisse veramente. Intorno, senza contare i bambini, erano quattro giovani donne, eccitatissime dalla visita inaspettata; specialmente una, di estrema grassezza ed esuberanza, non smetteva di affaccendarsi a far posto, procurare sedie, dare spiegazioni di ogni genere. Si aveva l’impressione che nessuna avesse afferrato bene perché l’ufficiale fosse venuto. «E allora, sta bene adesso?» domandò a un certo punto una di esse. Le altre si affrettarono a zittirla. Il fatto è che non aveva capito niente; credeva che Burgos fosse venuto a portare notizie della figlia ferita.

Ma perché quelle donne continuavano a parlottare? Chi era quel vecchio austero entrato adesso con grandi cerimonie? Perché il marinaio dei dragamine si affannava, credendo di non dare nell’occhio, affinché si offrisse qualcosa al comandante? E che significava di là, in cucina, quell’improvviso armeggìo come di festa? La mamma di Battiloro, seduta con grande compostezza, annuiva alle parole del comandante; a opera dei dolori ella pareva del tutto svuotata.

«Era seduto vicino a me commosso, come noi due qui, adesso. E mentre mi medicavano...» Lei faceva segno di sì, con la testa, ma la sua mente doveva essere lontana, i suoi occhi non più capaci di piangere; come quando a un albero strappano via tutti i rami e a poco a poco il tronco si dissecca. «Per fortuna non ha sofferto, io gli tenevo una mano...» Lei faceva segno di sì, di sì, con rassegnazione infinita.

«Ecco qui due giornali. Qui si parla di vostro figlio. Ve li farete leggere. Hanno scritto degli articoli proprio per lui.» Lei li prese, fece per aprirli, li ripiegò di nuovo, ma era evidente che non se ne rendeva conto.

«Adesso dovete dirmi, vi prego, ditemi se posso fare qualcosa per voi, ditemelo con tutta sincerità.» Ed ecco le labbra della madre si mossero, mormorarono qualche parola: «Le sue robe...» disse «i suoi vestiti...» Avrebbe voluto gli effetti personali del figlio, andati probabilmente perduti dopo il bombardamento, nel travaglio del bastimento colpito. E qui il comandante si accorse di aver dinanzi una povera mamma che gli anni, la maternità, i dolori avevano alla fine spenta; e non ne restava che un’ombra, una specie di dolce simulacro, staccato già dalla terra. Tutto poteva lasciar supporre ch’ella fosse ancora tra di noi; invece, senza che nessuno sapesse, lei si era incamminata adagio adagio dietro quei due figlioli, e ormai ne aveva fatta di strada. Invano il comandante Burgos era venuto fin qui a cercarla e ora la chiamava indietro perché gli rispondesse; lei andava avanti sulle orme dei figli perduti; ed era inutile che lui parlasse ancora, proprio come parlare a un fantasma. E gli altri intorno non capivano. Essi erano buoni e amorevoli con la mamma di Battiloro ma non immaginavano neppur di lontano che cosa fosse successo dentro di lei; alla presenza di così aristocratico ufficiale erano esclusivamente preoccupati di non far cattiva figura. Di fuori cominciava a piovere.

Il capitano Burgos ha rinunciato a parlare. Risponde con sorrisi stentati alle premure della famiglia, accetta una fetta di dolce, è impaziente di andarsene. Non vede l’ora di uscire sulla via donde potrà scorgere tra le case qualche pezzetto di mare, una sia pur misera striscia, ma di nudo, plumbeo, selvaggio mare deserto. Si rende conto di essere solo, assolutamente solo coi suoi meravigliosi ricordi nella stanza zeppa di gente. Anche Battiloro, animo semplice, si sentirebbe solo qui dentro. Perché ciò che i soldati soffrono nelle ore grandi della guerra non può essere spartito con gli altri uomini, una barriera misteriosa separerà gli uni e gli altri per sempre.

Corriere della Sera, 4 luglio 1943

(pubblicato poi in: Dino Buzzati, Il buttafuoco. Cronache di guerra sul mare, Mondadori, 1992)